Fdp 10 - appr - i basiliani a novi

Basilio_di_Cesarea_copyNOVI VELIA (SA)
Novi Velia e i Monaci Basiliani

Non si conosce come i Basiliani giunsero a Novi. Certo è che i Longobardi, oramai convertiti al Cristianesimo, accolsero questi operosissimi monaci con buona predisposizione. Certamente all'inizio si sistemarono nelle grotte di cui il Monte di Novi era ricco dedicandosi alla contemplazione eremitica. Ma non rifuggivano dal socializzare con i residenti ai quali dedicavano le loro cure aiutandoli nei lavori dei campi ed insegnando loro le migliori tecniche per la produzione agricola. Successivamente si stabilirono all'interno delle mura cittadine per sentirsi protetti dalle temute invasioni dei Saraceni o per dedicarsi completamente alla comunitá che li aveva benevolmente accolti. Per raccogliere in preghiera comune i fedeli, costruirono una piccola Chiesa che dedicarono alla Madonna e che da allora venne chiamata Santa Maria dei Greci. 
Questa pur modesta chiesa fu attiva, come parrocchia, fino ad oltre il sedicesimo secolo. Sulla parte superiore del paese, i Padri Basiliani, costruirono altre due Cappelle: una dedicata a San Nicola di Bari, per il quale i frati nutrivano grande devozione, e l'altra a San Giorgio il Santo dei Longobardi'. Queste due Cappelle, dopo circa due secoli, furono abbattute per essere ricostruite più capienti e più belle. La prima in prossimità della porta che da lei aveva assunto il nome di Porta S.Nicola e la seconda sullo stesso posto della precedente adiacente il Castello Baronale.
I rapporti col clero secolare operante a Novi fin dall'arrivo dei profughi velini, non furono certamente idilliaci. Molte diversità li allontanavano gli uni dagli altri. Innanzitutto i frati Basiliani che potevano essere sposati ed avere famiglia, officiavano col rito greco mentre i sacerdoti secolari,che dovevano osservare il celibato, officiavano con il rito latino. Si pensa che, per consentire ai sacerdoti latini di esercitare la loro missione più degnamente, sollecitarono i Longobardi, verso il 1100, ad edificare una chiesa molto grande e bella che fu intitolata alla stessa Santa Maria ma questa volta dei Longobardi per distinguerla da quella dei greci officiata dai Basiliani.
S. Maria dei Longobardi fu realizzata fuori le mura della città ed ebbe anche funzione di fortezza in quanto inserita nella murazione che veniva spostata più in avanti. Ad essa fu adagiata la nuova porta che assunse naturalmente il nome di Porta dei Longobardi. Questa chiesa, nei secoli, diede sempre maggior lustro al paese per la sua bellezza e ricchezza di opere d'arte che seppe nel tempo procurarsi e per l'importanza che assunse tra il 1600 ed il 1800.
I Vescovi, in quel periodo, elessero Novi a loro residenza e S.Maria dei Longobardi fu quindi adibita a Chiesa Cattedrale.

Testo tratto dal libro:
V. Cerino, B. Viciconte, San Giorgio Chiesa e Monastero in Terra di Novi
Pro Loco di Novi Velia, 2003 - pag. 78 ss.)

Fdp 10 - appr - novi e i pellegrinaggi

pellegrinaggioNOVI VELIA (SA)
Novi Velia e i Pellegrinaggi


Nel cuore del Cilento, proprio alle spalle del capoluogo, Vallo della Lucania, si erge in tutta la sua potenza, solitario gigante della valle di Novi, il massiccio del Gelbison, sulla cui vetta si trova il più alto Santuario d'Italia, dedicato alla Vergine Maria.
Il nome del monte è di chiara etimologia saracena, Gebil-el-Son, il Monte dell'Idolo, come di origine araba sono tanti toponimi cilentani, dovuti alla lunga permanenza dei Saraceni nel territorio.
E se il monte fu chiamato con questo nome, vuol dire che già al tempo dei Saraceni esisteva un luogo di culto lassù, sulla vetta.
Per i Cilentani il Gelbison è semplicemente "il Monte Sacro", che attira annualmente migliaia di fedeli che lassù confluiscono non solo dalla regione campana ma anche dalla Basilicata, dalla Puglia e dalla Calabria per deporre ai piedi di Maria le loro pene e chiedere le sue grazie celesti.
La "Madonna del Monte", come viene chiamata dai Cilentani, la cui venerazione risale al 1300, è una statua lignea, in origine rozzamente scolpita e restaurata in epoca moderna.
La Vergine è rappresentata seduta, col Bambino sul braccio sinistro e con la destra atteggiata a distribuire i suoi favori divini.
Il viso bruno, allungato, gli occhi alla greca, tutta la figura slanciata, ci riportano all'iconografia bizantina e alla colonizzazione "basiliana" del primo millennio della nostra era, cioè dei monaci italo-greci, seguaci dei precetti di San Basilio, fondati sulla preghiera, la meditazione e lo studio delle Sacre Scritture.
Essi, fuggiti da Bisanzio e dalla penisola balcanica, in seguito alle invasioni degli Avari e degli Slavi e alle lotte iconoclaste del 726, si rifugiarono nell'Italia Meridionale e, risalendo, trovarono nel Cilento, a quei tempi aspro e selvaggio, con i suoi boschi fittissimi e le mille grotte e anfratti, il luogo ideale per l'isolamento necessario alla loro vita eremitica e cenobitica.
I fondatori del santuario, che in origine era solo un piccolo tempio, sicuramente vissero, all'inizio, in grotte naturali o intorno alla grotta nella quale avevano sistemato l'Immagine della Madonna, alla quale è legata una leggenda, riferita dal monaco celestino Bernardo Conti nel suo libro: "Storia e miracoli della Beata Vergine del Monte Sacro di Novi"
Alcuni pastori di Novi Velia, volendo edificare per loro comodità un piccolo tempio dedicato alla Madonna, alle falde del monte, ed essendo riusciti vani tutti i loro tentativi poiché al mattino si trovava disfatto il lavoro del giorno innanzi, deliberarono di vegliare di notte per scoprire gli autori e portarono con loro un agnello per cibarsene. Ma, sul punto di essere ucciso, l'agnellino sfuggì loro dalle mani e, saltando di balza in balza, arrivò sulla vetta, arrestandosi tutto tremante davanti ad un muro che ostruiva una piccola grotta. In essa era l'Effige della Madonna. Attoniti, i pastori ridiscesero a raccontare l'accaduto ai compaesani e al vescovo di Capaccio, poiché allora non c'era ancora il vescovado a Vallo. Il vescovo si recò sul luogo per constatare con i propri occhi ma, al momento di benedire la grotta, risuonò una voce dall'alto: "Questo luogo è santo ed è stato consacrato dagli Angeli".
Questa la leggenda che, per altro, è comune a molti santuari. Il primo documento storico che parla di una "rupis Sanctae Mariae" nel feudo di Rofrano (l'altro versante del monte) risale al 1131 e si trova in un Diploma dato da Ruggero II, il Normanno, all'abate Leonzio di S.Maria Grottaferrata. Il citato monaco celestino narra che il tempio, ampliato e divenuto santuario, fu posseduto per alcuni anni dal vescovo di Capaccio ma nel 1323 Riccardo di Marzano, Maresciallo del Regno di Sicilia, duca di Sessa, conte di Squillace, barone di Novi, principe di Rossano, lo comprò per darlo in uso ai monaci celestini di Novi, per i quali aveva mutato in convento il suo castello.
L'Ordine dei Celestini, fondato, nel 1264 da Pietro Angelerio, chiamato Pietro del Morrone, (dal monte, vicino ad Isernia, sul quale egli visse da eremita per parecchi anni), divenuto papa col nome di Celestino V, era una congregazione di eremiti i quali, per il loro tenore di vita austero, solitario e contemplativo, erano i più adatti per un santuario posto in cima a un monte alto 1700 metri.
Allorché l'Ordine dei Celestini decadde e si estinse del tutto nel sec. XVIII, il santuario ritornò al vescovo di Capaccio.
Ad ogni santuario è legato il pellegrinaggio, come forma di devozione, insita in tutti i popoli e in tutte le religioni.
Nell'antichità poteva trattarsi di una selva, di un fiume, di una roccia, di un albero, di un monte sacro o di una divinità taumaturgica.
Il Cristianesimo ha offerto alla venerazione luoghi che evocassero un evento divino o una chiesa. Maria Santissima del Sacro Monte è la Madonna del Cilento

Fdp 10 - appr - centa a Novi Velia

NOVI VELIA (SA)
La tradizione della Centa


La parola "cénta" fa rimerimento al dono che a nome della "compagnia" dei pellegrini viene portato al santuario da una ragazza nubile. Non è qui il caso di perdere tempo a descrivere la "cénta". E' una parola prettamente dialettale e più propriamente dal dialetto meridionale. Non sono per nulla d'accordo con quanti ritengono che "cénta" derivi dalla parola "cénto" e che stia ad indicare il dono di cento candele, come trovo scritto a pagina 486 del primo volume di "Storia delle Terre del Cilento Antico". Infatti nel dialetto meridionale la parola italiana "cénto" suona "ciénto" con dittongo e la "e" larga, mentre nella parola " cénta" manca il dittongo e la " e " é stretta. A mio modesto parere l'etimologia della parola "cénta" si trova in una doppia metafora.
Ho detto dinanzi che la "cénta" deve essere portata da una ragazza nubile il cui nome a Novi viene sorteggiato la vigilia del pellegrinaggio. E' tradizione che la ragazza trovi marito entro l'anno. Questa ragazza ha il diritto e il dovere di portare la "cénta" sulla testa al Pinizio e al termine delle processioni, quando si entra nella chiesa parrocchiale e quando se ne esce e, a maggior ragione, nell'entrare nel Santuario e nell'uscirne. Anche qui dobbiamo rifarci ai tempi antichi. Le ragazze greche, cosi come quelle romane, portavano il cinto, cioè una fascia attorno ai fíanchi, fascia che veniva sciolta dal marito nella notte nunziale. La donna che a nome di tutta la "compagnia" portava i doni al Santuario doveva portare il cinto, cioè doveva essere cinta, segno della sua verginità. Non per nulla anche ora di una donna in stato interessante si dice che è incinta, cioè: non cinta. Ecco quindi la prima metafora. La ragazza che porta il cinto è "cinta" che in dialetto diventa "cénta" con la "e" stretta. A sua volta anche il dono da lei portato, per metafora diventa "la cénta".

I testi sono tratti da:
Vincenzo Cerino, sac. Carlo Zennaro
Breve Storia Popolare di Novi Velia Pro Loco Novi Velia, litografia Vigilante srl, 2001, pagg. 125 - 131.

Fdp 10 - appr - stati generali rovigo

Che cosa sono gli STATI GENERALI?

Gli Stati Generali della Cultura Popolare sono uno strumento che la “Rete Italiana di Cultura Popolare”, in accordo con gli Enti locali, ha deciso di adottare per la costruzione delle “Antenne” sui singoli territori provinciali. L’obiettivo, in un'ottica di confronto nazionale ed internazionale, è quello di tutelare il “locale” come patrimonio. Il progetto strategico delle “Antenne” nasce con l’obiettivo di coinvolgere le forze attive delle comunità, per governare il confronto nazionale ed internazionale, superando le diverse visioni locali e territoriali che sono spesso causa di divisioni. Una Rete nazionale ha il dovere di immaginare spazi per il dialogo e, nell’interscambio, programmare azioni ancora più efficaci, affinché i diversi sistemi di un territorio siano l’ossatura di un lavoro condiviso.

Nel 2011 ricorreranno i 150 anni dell’Unità italiana, un’unità che spesso non ha trovato riscontro nella storia “minore”, ovvero in quelle mille piccole patrie che rappresentano una “resistenza culturale” all’imperante cultura di massa. E proprio per il 2011 è prevista - per la prima volta in Italia - l’organizzazione degli “Stati Generali Nazionali della Cultura Popolare” come luogo del confronto e dell’agire comune.

In vista di questa importante assemblea nazionale, si stanno avviando gli “Stati Generali” in ogni Provincia socia della Rete Italiana di Cultura Popolare. In Provincia di Rovigo si terranno il 9 settembre 2010, in concomitanza con la tappa del Festival delle Province 2010, all’interno di Ande, Bali e Cante. Festival di Musica e Cultura Popolare.

A seguire per un anno, di tappa in tappa, saranno coinvolte tutte le “Antenne” territoriali fino a giungere all’appuntamento conclusivo di Torino nel settembre 2011.  Riti, feste e saperi vivono una nuova epifania.

 

Fdp 10 - appr - intervista De Mauro

tullio-de-mauroINCONTRO A KM0 - VIDEO INTERVISTA: LA RETE ITALIANA DI CULTURA POPOLARE INCONTRA TULLIO DE MAURO

Un excursus sul concetto di Cultura, sul significato oggi di ‘Popolare’, sul valore delle Lingue d’Italia, e sul fenomeno del ‘glocale’, oltre a quello, attualissimo, dell’integrazione.

Il grande linguista italiano Tullio De Mauro tocca, attraverso questa intervista, alcuni dei punti essenziali del lavoro della Rete Italiana di Cultura Popolare.

La Cultura, ovviamente: se il significato originale era la coltivazione (che si trattasse di campi, animali o nuove scienze) perché limitare il concetto alle ‘belle lettere’? La Cultura deve essere guardata in tutti i suoi strati – come diceva Kant – da quell’apprendimento diffuso per, letteralmente, garantirsi la sopravvivenza, alla comprensione ‘superiore’, legata a scienza, arte e letteratura.

Quando poi si parla di Popolare, ci si riferisce a quella cultura più profonda, radicata: ma non necessariamente bassa. Persino la Divina Commedia o la Costituzione Italiana stessa possono essere definite popolare, per la loro capacità di parlare alla gente.

Di qui Tullio De Mauro passa ad affrontare anche il tema del locale: le culture locali, spesso portatrici di separatezza reciproca tra i diversi territori in cui si sviluppano e oggetto  di oblio da parte di alcune classi intellettuali, si riscoprono nelle loro diverse somiglianze. Forse un desiderio di riscoprire il locale contro la planetarizzazione? Nasce il ‘glocale’, la voglia di mantenere viva la tradizione del territorio pur non negando la globalizzazione. Basti osservare l’Italia e le sue lingue di minoranza, i suoi dialetti: un fenomeno che, insieme alle grandi tradizioni teatrali e musicali a cui da vita, rappresenta una forza storica senza eguali in Europa. Un patrimonio di cui si deve prendere coscienza (come già grandi scrittori di ogni tempo hanno fatto), sebbene continuando a riconoscere l’importanza della lingua italiana.

Per concludere, lo studioso sottolinea come oggi le diverse tradizioni nazionali si trovino ad affrontare una nuova fase, quella dell’integrazione con culture altre. Contemporaneamente, la trasmissione dei saperi dei nostri avi è uno dei punti chiavi che non dobbiamo dimenticare: perché dilapidando i saperi, di rischia di dilapidare anche le tradizioni.

Fdp 10 - appr - che cosa è videointer km0

telecameraIncontri a km0: le videointerviste...che cosa sono?

La Rete Italiana di Cultura Popolare ha l’obbiettivo di parlare a quella generazione che sta intessendo nuovamente il filo dei “Maestri inconsapevoli”, cosciente che solo tramite un dialogo incessante e quotidiano sia possibile prendere parte ad una cultura necessaria. Ma è anche voglia di confronto, con tutti quegli scrittori, filosofi, scienziati e pensatori, persone del nostro tempo, che siamo andati a trovare durante l’anno e che vogliamo portare come riflessione per tutti quelli che ci seguono. 

E’ per la voglia di confronto dunque, che siamo andati a trovare durante l’anno scrittori, filosofi, scienziati e pensatori, persone del nostro tempo, e ora vogliamo portare la loro testimonianza come riflessione per tutto il pubblico del Festival. Sono stati intervistati Francesco Guccini, Tullio De Mauro, Eugenio Finardi, Maurizio Costanzo, Margherita Hack…