E a un certo punto, il mio tempo in Marocco è scaduto. Ho dovuto fare le valige e partire.
Ho preso un treno fino a Tangeri e mi sono fatta timbrare il passaporto per attraversare il mare. Eravamo cento persone ad aspettare, in un pugno di terra di nessuno. Dopo un tempo incalcolabile ci hanno fatti correre fino ad una delle banchine del porto, davanti alla nostra nave, con la pancia aperta, che vomitava automobili. Uscita l’ultima macchina, di fronte a tutti noi – biglietti alla mano – la pancia si è chiusa e la nave è ripartita, come una balena sdegnosa, lasciandoci di sasso. Nessuno ci ha saputo spiegare perché.
Abbiamo atteso un’ora col sole intorno allo Zenith. Ho visto persino un Cinese alzare le mani per tenersi buono il suo posto in fila – quanto a me, non capivo a che servisse la fila, che di fatto era inutile, e sono così sfuggita alla mucchiata di ascelle e bagagli.
La nostra balena è ritornata e ci ha ingoiati. Dal ponte della nave, ho guardato la costa marocchina farsi appena un poco più distante, mentre corpi seminudi intorno a me iniziavano a parlarmi di Europa.
Arrivata a Tarifa, ho atteso due ore un pullman, perdendo la coincidenza per Siviglia. Ho dormito una notte ad Algiasira, dove le zanzare mi hanno festeggiata, ma dove la comunità marocchina mi ha fatto sentire ancora in Africa. “Non serviamo birra, ci dispiace”. Quasi nulla sembrava essere cambiato.
Il giorno dopo sono riuscita a saltare sul pullman per andare a Nord. Ho trascorso due giorni a Siviglia, meraviglia, detestando i prezzi e riconciliandomi con la mia e l’altrui nudità.
Il volo supereconomico Ryanair, che solitamente benedico, questa volta mi ha messa a dura prova. Per non spendere venti euro ad ogni chilo in eccesso, ho dovuto gettare cinque chili di roba alle sei del mattino e ho quasi perso l’aereo. Ho cercato di congratularmi con me stessa per la notevole capacità di distacco dai beni materiali. Avrei voluto sentirmi zen, per trovare il lato buono della faccenda. Ma sono solo riuscita a trattenere le lacrime di rabbia e a non alzare le mani sulle inservienti, innocenti e sottopagate.
Alle otto ero a Bordeaux. Scura, adagiata sul fiume, grandiosamente francese. Mi sono trascinata, con una valigia rotta, fino all’ostello, dove sono svenuta per un giorno intero. La fame mi ha svegliata ch’era già notte. Il giorno dopo, un treno e due bus mi hanno fatto risalire il buon vecchio Esagono, con i suoi spazi disabitati, così verde.
Ora sono a Gannat. Le vacche sono grasse, come quelle dei formaggini. I prati rugiadosi. Ha persino piovuto!
Bisogna che cambi le scarpe e mi compri un ombrello.