Tonino Guerra

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TONINO GUERRA
 

Tonino Guerra, poeta e sceneggiatore di fama internazionale, si è spento lì dove è nato, a Santarcangelo di Romagna, 21 marzo 2012. Ha saputo portare a livelli altissimi la poesia dialettale romagnola. Le sue prime composizioni poetiche in dialetto presero forma durante la prigionia nel campo di concentramento di Troisdorf in Germania. Dal dopoguerra iniziò una fervente attività letteraria, che fino ad oggi ha dato la luce a numerosissime opere di poesia, di narrativa, di teatro, e ad oltre 120 sceneggiature cinematografiche, che l’hanno visto partcipare a grandi capolavori di registi quali Antonioni, De Sica, Fellini, Tarkowski ed altri.

L’opera poetica di Tonino Guerra rappresenta una svolta fondamentale per la dialettalità, a cui ha saputo conferire grande dignità, permettendole di diventare lingua della poesia senza più distinzioni né categorizzazioni, congedandosi da ogni forma di municipalismo.

Tonino Guerra è stato premiato come Testimone della Cultura Popolare ® 2006 per la Provincia di Forlì Cesena.

 

Antonio Guerra nasce a Santarcangelo di Romagna, il 16 marzo del 1920. E il più piccolo dei quattro figli di Penelope Carabini e Odoardo Guerra. Si farà chiamare Tonino, firmando così la sua prima sceneggiatura e i libri dal ’64 in poi. «Un’infanzia con le strade di terra battuta e le siepi con piccoli uccelli. Sono stato un grande cacciatore di lucertole e me ne vergogno. Ho studiato al mio paese, a Forlimpopoli e a Urbino dove c’erano dei professori eccezionali. Mia madre era analfabeta. Le ho insegnato a scrivere. Ho letto il suo testamento nella casupola sulla sponda del fiume Uso, dove eravamo sfollati al tempo del fronte. Così era scritto sul foglio nascosto nell’astuccio di cartone dei suoi occhiali da vista: “Lasio tutti i miei beni a mio marito da fare tutto quello che vole, Carabini Penelope”. A quel tempo mia madre possedeva dei vasi di fiori. Qualche giorno dopo mio padre, grande amico degli animali, mi manda a Santarcangelo a portare qualcosa da mangiare al gatto che avevamo abbandonato nella casa di Via Verdi. Così sono stato deportato in Germania».

«In prigione ho cominciato a scrivere poesie in dialetto per tenere compagnia ai contadini romagnoli che erano con me nel campo di concentramento di Troisdorf. Ho scritto in dialetto perché i contadini delle mie terre che erano con me, volevano così».

Poi giunge, finalmente, il ritorno. «Sono arrivato alla stazione di Santarcangelo una mattina d'agosto del 1945. Credevano fossi morto. Per non spaventare mio padre e mia madre ho impiegato un giorno a percorrere il chilometro di strada che c'era tra la stazione e casa nostra. Seduto sulla sponda di un fosso, mandavo qualcuno a casa ad avvertire che c'erano in Altitalia dei prigionieri che tornavano. Nel pomeriggio ho deciso di farmi vivo. Mio padre mi aspettava sulla porta di casa. Non ci eravamo mai dati né baci né strette di mano; mi fermo a quattro metri da lui per non metterlo in imbarazzo. Il babbo mi guarda a lungo stringendo il mezzo toscano in bocca, poi toglie il sigaro spento e mi chiede se ho mangiato. “Moltissimo” rispondo. Lui se ne va indaffarato in paese, senza girarsi neanche più indietro, ma più tardi arriva un uomo con una piccola valigia in mano. A me che chiedo se cerca qualcuno dice: “Sono il barbiere. Suo padre mi ha detto che devo fargli la barba”».

Tratto da Valter Giuliano, "Canti, Pupi e Tarante, Incontri con i testimoni della cultura popolare", pubblicazione del progetto editoriale della Rete Italiana di Cultura Popolare.

 

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