Didattica del territorio. Breve storia della Provincia di Como

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Lago di Como Lago di Como

“Chi vuole il ridente, il molle, il tranquillo, il temperato, insomma delizie e amenità, non va sicuramente a cercarlo sulle Alpi, ma nelle Prealpi, specialmente nella zona inferiore, dove regnano primavere ed estati che non trovano molto da invidiare a quelle dei paesi più meridionali. E’ questa la regione dei laghi azzurri, dei limpidi torrenti, dei boschi ombrosi, dei prati fioriti, dei pingui colli, dei giardini incantati, delle viti, degli ulivi, e più in alto dei castagni e dei faggi”

                                                                     Abate Stoppani

LA PROVINCIA DI COMO

La provincia di Como è situata nella parte nordoccidentale della Lombardia, di cui costituisce la quart’ultima provincia per superficie; la sua estensione è infatti di 1288 km². Politicamente essa confina con le province di Varese, Sondrio, Lecco e Milano, nonché con il Cantone Ticino

Ben diverso doveva presentarsi il territorio in cui oggi si sviluppa la provincia di Como milioni di anni fa quando ancora le cime montuose non erano emerse dal vasto mare che  sommergeva l’intera area. Oggi, sulle montagne tra Lario e Ceresio, si possono trovare numerosi fossili che attestano la presenza di un antichissimo e vivace mondo marino abitato da specie curiose e diversificate rimaste imprigionate negli strati rocciosi che al tempo ne furono i fondali.

La località di Osteno, sulla riva comasca del Ceresio, è famosa nel mondo proprio per il suo giacimento fossilifero a “conservazione totale” risalente a quando, nel Giurassico inferiore, il fondale marino ricco di invertebrati (tra cui il tilacocefalo, un bizzarro crostaceo) occupava la zona. Collezioni rappresentative della varietà dei ritrovamenti di Osteno sono esposte al Museo di Storia Naturale di Milano e al piccolo museo di Lanzo d’Intelvi.

Venne poi l’Era in cui, sul fondo del mare primordiale, si avviarono lunghi sconvolgimenti morfologici che portarono, con il sollevamento di enormi faglie di crosta terrestre,  alla formazione delle montagne oggi costituenti l’odierna fascia alpina. In quest’Era, definita come Quaternaria, le creste montuose, alzatesi sopra il livello delle acque si ricoprirono di vasti ghiacciai che andarono modellando i fianchi delle montagne e scavando solchi che poi divennero valli, preparando, in ultimo, la sede dei grandi laghi. Il Lago di Como, vero asse geografico centrale del territorio della provincia, ebbe origine durante questa fase  di glaciazioni quaternarie, quando il ghiacciaio, che ne ricopriva il solco, iniziò un lento movimento verso sud, causando una continua erosione che preparò il luogo nel quale, grazie al ritiro dei ghiacci, si formarono il lago stesso e il complesso di colline moreniche tipiche dell’area meridionale della provincia. Il ghiacciaio, che dalla Valtellina scendeva fino in Brianza, oltre ad infiniti depositi di sedimenti, ghiaie e sabbie fluvioglaciali, ha lasciato anche vari massi erratici (che lo Stoppani chiamava “trovanti”), particolarmente frequenti nel Triangolo Lariano, dove quelli di maggiori dimensioni, costituendo un’anomalia del paesaggio, sono protetti dalla legislazione regionale. Se ne ricordano i più noti come la Pietra Pendula nel comune di Torno, la Pietra Luna e la Pietra Lentina nel comune di Bellagio (località di Pian del Rancio).

Non c’è dubbio che la presenza del Lario, nell’area da noi indagata, ha permesso la formazione di un particolare habitat naturale. Esso è infatti un fattore di mitigazione climatica di grande importanza poiché, oltre ad addolcire il clima delle località rivierasche, genera i regimi di brezza della Breva, che spira verso i rilievi, e del Tivano, che discende verso valle, consentendo la sopravvivenza a piante e colture tipiche delle regioni mediterranee che nel clima prealpino umido e piovoso, detto insubrico, trovano condizioni molto favorevoli.

Le sue acque sono popolate principalmente da specie ittiche pelagiche come  il coregone e il lavarello, introdotte dall’uomo sul finire del secolo scorso. Altre specie “straniere”, ben acclimatatesi, sono il persico sole e il salmerino; tra quelle del litorale spiccano il pesce persico, la scardola, la carpa, il triotto e la tinca.

Il pesce più noto del Lario è però l’agone (che pare derivi dalla cheppia che risale il corso del Po), conosciuto localmente come “missoltino”.

I laghetti briantei di sbarramento morenico, che punteggiano la provincia specialmente a meridione, sono poco profondi e poveri di ossigeno. Essi quindi hanno permesso una grande proliferazione della scardola, mentre il luccio, il persico trota e il persico sole sono in drastica diminuzione a causa del forte inquinamento organico dei bacini.

Il territorio provinciale si può agevolmente suddividere, dal punto di vista altimetrico, in due grandi aree: quella montuosa, alpina e prealpina, a nord, e quella collinare e dell’alta pianura a sud ai quali corrispondono tre principali distretti vegetativi: quello alpino (rappresentato quasi esclusivamente dal settore prealpino), quello insubrico (nella parte collinare e lacustre) e il distretto padano che si identifica con la fascia di alta pianura.

Nella zona montuosa, geologicamente importante è la cosiddetta Linea Insubrica, che passa poco a nord di Gravedona e la Valle di Sant’Iorio e che demarca la falda alpina da quella prealpina, situata a sud della linea. Soltanto la piccola porzione di territorio a nord di tale demarcazione geologica appartiene alle Alpi vere e proprie, in cui predomina la presenza di rocce metamorfiche di origine vulcanica caratteristiche della zona “Bellinzona-Dascio”. Le cime più elevate di tale settore alpino propriamente detto sono quelle site sul confine con la  Svizzera: il monte Cardinello (2521 m.), il pizzo Ledù (2503 m.), il pizzo Martello (2459 m.) e il Marmontana (2316 m.) Le valli principali sono quelle del Livo e di sant’Iorio.

Il settore prealpino, o delle Alpi Meridionali, presenta le cime più elevate, ossia il monte Bregagno (2107 m.) e il Tabòr (2079 m), nella parte a nord della Val Menaggio, la quale è importante poiché separa la valle del Lario da quella del Ceresio. Questa valle è caratterizzata da una pianura alluvionale al centro della quale è posto il Lago di Piano. A sud, un analogo taglio tra i due laghi è costituito dalla Valle d’Intelvi, di origine glaciale, dominata, al confine con il Canton Ticino, dal monte Generoso (1701 m.). Dalla cima del monte Bisbino (1325 m.) si può godere un’eccezionale vista panoramica sulla città di Como e sulla parte terminale dell’omonimo ramo del Lario.

I rami di Como e di Lecco del Lario separano, il cosiddetto Triangolo Lariano, dal resto della fascia prealpina comasca. Esso è attraversato al centro da una spina montuosa che culmina nelle cime del monte San Primo, del Palanzone e del Bolettone, mentre a sud-est, oltre il solco della Valassina (attraversata dal tratto superiore del fiume Lambro), si stagliano i Corni di Canzo.

I Calcari di Moltrasio e Domaro sono la tipologia di roccia più abbondante sulle sponde del Lario e a sud del Monte San Primo, dove si rinviene il Rosso Ammonitico Lombardo, un calcare marnoso di spessore ridotto ma ricchissimo di ammoniti fossili. Esso si può tipicamente rinvenire nell’area dell’Alpe Turati. Cavità carsiche come il Buco del Piombo e la Grotta di Laglio hanno inoltre restituito abbondanti ossa di Orso delle caverne, che si estinse poco prima della fine dell’ultima glaciazione, 15000 anni fa. Il carsismo, originato dalla corrosione chimica delle rocce carbonatiche, è diffuso anche sulla sponda occidentale del Lario, dal Bisbino al Monte di Tremezzo.

L’ambiente alpino rupestre, caratteristico delle cime più elevate del Triangolo Lariano e del Lario occidentale, è arido e povero di vegetazione. Le principali specie rinvenibili sono, il raperonzolo di roccia e alcune varietà di sassifraghe. Gli uccelli di alta quota sono rappresentati dal gracchio alpino, dal sordone, dal rondone alpino e naturalmente dall’aquila reale. Le praterie alpine ospitano piante come la festuca, il nardo, il ginepro nano, la genziana, la stella alpina, ed uccelli come la coturnice, la pernice bianca. I mammiferi presenti sono lo stambecco, il camoscio alpino (la cui consistenza numerica è in costante ripresa), l’ermellino, la lepre bianca e la marmotta. Le torbiere sono l’habitat ideale della rana montana.

I boschi di conifere dell’Alto Lario sono formati dal larice e, in minor misura, dall’abete rosso. I vertebrati più comuni, a questa quota, sono il rospo, lo scoiattolo, la martora, varie specie di cince e l’astore. Diminuendo d’altitudine, le faggete, molto diffuse, ospitano la salamandra, il pettirosso, il toporagno e il ghiro, mentre nei torrenti vivono la natrice dal collare e la salamandra pezzata. Nelle quercete e negli estesi castagneti vivono rettili come la vipera, il biancone e il colubro di esculapio. In assenza di predatori,  cinghiali e cervi sono particolarmente numerosi, e ciò è fonte di problemi per l’ecosistema forestale.

Nella zona di alta pianura, che fa parte della fascia di alta pianura lombarda sita a nord delle risorgive, l’elemento geomorfologico più caratteristico  è senz’altro la cerchia morenica, costituita da colline arcuate e allungate, formate da molte morene frontali che venivano rilasciate dai ghiacciai laddove essi “morivano” nella pianura. Frequenti sono i laghi sbarrati dalle morene, come quelli di Montorfano, Pusiano e Alserio. Essi vanno progressivamente colmandosi a causa degli apporti sedimentari.

Nell’alta pianura, frequente è la farnia insieme al carpino bianco e al ciliegio. Vi abbondano i roditori: toporagni nani, arvicole rossastre e il topo selvatico a dorso striato, raro in Lombardia. Nei boschi degradati, al contrario, la fanno da padrone piante originarie del Nordamerica come l’onnipresente robinia e il ciliegio tardivo. Gli anfibi come l’ululone dal ventre giallo e il tritone abitano le zone umide ripairali. Le brughiere (come quella tra Meda e Mariano Comense) sono costituite da vegetazione bassa e arbustiva (brugo, felce aquilina) e da arbusteti più alti e fitti (betulla, pioppo tremulo). A livello del suolo troviamo la genziana mettimborsa e il centauro maggiore.) La fauna invertebrata è rappresentata da coleotteri cerambicidi e carabidi, mentre i vertebrati più presenti sono anfibi (come la rana di Lataste e il rospo comune) e rettili (ramarri, biacchi e vipere.).

Parchi naturali

La provincia di Como è piuttosto ricca di aree naturali protette. I tre principali regimi di tutela, ai sensi della Legge Regionale 86 del 1983, sono i Parchi naturali regionali,i parchi locali di interesse sovracomunale e le Riserve naturali.

Il Parco naturale della Pineta di Appiano Gentile e Tradate[1] è diviso fra le province di Como e di Varese. I boschi occupano circa l’85 per cento del territorio complessivo del Parco, mentre il resto è occupato dalle aree agricole. Le specie arboree prevalenti sono il pino silvestre, la farnia, il castagno e la betulla, che hanno sostituito l’associazione farnia-betulla. La fauna non è particolarmente ricca, a causa della caccia e delle attività umane. Gli uccelli più caratteristici sono la beccaccia (di passo), il falco pecchiaiolo e l’upupa.

Il Parco della Spina Verde di Como è un’area collinare che costituisce l’ultima consistente zona verde fra il capoluogo e l’alta pianura. La fauna è di apprezzabile consistenza, dato che i boschi hanno discrete estensioni di castagno, robinia, quercia e betulla. All’interno del territorio del Parco sono inoltre situate le rovine medievali della Torre del Baradello e l’importante necropoli celtica della Ca’ Morta.

Il territorio del Parco dell’Adda Nord[2] è morfologicamente caratterizzato da terrazzi fluvioglaciali. Le specie arboree prevalenti sono l’ontano e la robinia. Il paesaggio, nella zona di Brivio, è arricchito da un’area umida che ospita varie specie di uccelli aquatici, mentre quelli tipicamente terrestri, come il fagiano e la starna, frequentano i prati e le aree coltivate lungo il fiume.

Il Parco della Valle del Lambro[3], pur se minacciato dalle circostanti aree ad alta densità abitativa, conserva molte aree paesaggistiche interessanti, così come siti di archeologia industriale.

L’area del Parco sovraccomunale del Lago del Segrino[4] possiede un alto valore paesaggistico, ma anche turistico e ricreativo. Le sponde scoscese del bacino di sbarramento morenico sono rivestite da boschi cedui molto fitti.

Il piccolo Lago di Montorfano[5]è stato costituito in Riserva naturale soprattutto  a causa delle presenza di uccelli acquatici come il migliarino di palude e il tarabusino. La vegetazione acquatica è ridotta, e l’acqua del lago è considerata la più pulita fra tutti i bacini morenici brianzoli. Ciò ha permesso il mantenimento di una apprezzabile popolazione ittica..

All’interno della Riserva naturale riva orientale del Lago di Alserio[6] vivono specie rare come la tartaruga palustre e la rana di Lataste , ma anche numerosi uccelli acquatici come il falco di palude, il porciglione e lo svasso. Oltre alla vegetazione palustre, sono presenti boschi a ontano nero, carpino bianco e frassino maggiore.

Il Lago di Piano[7] fa parte della medesima depressione glaciale del Ceresio. La sua fauna ittica è composta perlopiù da specie pregiate, poiché le condizioni biologiche di questo lago sono ottime. L’area è inoltre caratterizzata da un paesaggio rurale tradizionale e armonico.

La Riserva Naturale del Sasso Malascarpa[8] riveste notevole interesse dal punto di vista geomorfologico e paleontologico. L’area, sita sulla cresta tra il monte Rai e i Corni di Canzo, ha avuto origine da fenomeni di sedimentazione marina; per questa ragione essa è formata principalmente da una evidente piega tettonica di dolomia fossilifera a Conchodon. Sono presenti anche dei caratteristici campi solcati, tipico esempio di carsismo di superficie. Degna di nota è anche la flora rupestre, comprendente specie botaniche pregiate.

Uomo e territorio

Pur se attualmente il territorio della provincia comasca, similmente a quelli delle province limitrofe di Varese, Lecco e (soprattutto) Milano, è caratterizzato da un’elevata densità di popolazione (circa 400 abitanti per chilometro quadrato), è evidente la netta differenziazione della distribuzione demografica tra la fascia montana  e quella appartenente all’area dell’alta pianura lombarda.

In quest’ultima zona il boom demografico ed economico degli anni sessanta, insieme al successivo fenomeno di espulsione delle industrie dall’area metropolitana milanese, ha determinato la crescita vertiginosa delle attività produttive (artigianato e piccola e media industria) in tutta la bassa comasca, con un importante e famoso distretto del mobile e della lavorazione del legno nella zona compresa tra Mariano Comense e Cantù. Tutto ciò, pur senza assumere le forme invadenti tipiche delle conurbazioni del basso varesotto e dell’alto milanese, ha molto alterato i tradizionali ed equilibrati caratteri insediativi ed ambientali della zona, anche se va detto che l’esplosione urbanistica ha preso l’avvio dalla crescita dei piccoli e medi centri urbani, e non dall’espansione della grande città.

I centri più popolosi, a parte il capoluogo, sono quelli, come Erba, posti lungo la direttrice Como-Lecco, nonché Cantù e Mariano Comense, facenti invece parte dell’asse viario che collega Como con Milano. A sud-ovest, i comuni più importanti (Olgiate Comasco, Turate, Lomazzo) non superano i diecimila abitanti. Tale tendenza demografica persiste tuttora, visto che, ad esempio, tra il 1971 e il 1991 la città di Como ha perso circa dodicimila abitanti, mentre la popolazione dell’area meridionale della provincia è in costante crescita.

Nelle aree montane lariane, l’abbandono delle attività agricole tradizionali ha portato ad un progressivo ed apparentemente inarrestabile spopolamento, tranne dove la facilità di comunicazioni con il Canton Ticino (ad esempio: a Porlezza e nella Valsolda) ha permesso lo svilupparsi del fenomeno dei lavoratori frontalieri, nonché del pendolarismo verso Como e della massiccia immigrazione dal Meridione. Notevole, a partire dal secondo dopoguerra, ed in controtendenza rispetto allo spopolamento, è purtroppo stato l’impatto dell’incremento edilizio collegato al mercato delle seconde case, che ha snaturato l’ambiente naturale e urbanistico sia dei centri siti sulla sponda comasca del Lario, sia di quelli delle valli (si veda in particolare il caso del Triangolo Lariano, dove è molto marcata la differenza di intensità abitativa nella stagione estiva ed in quella invernale).

Le ultime testimonianze di tipologie architettoniche rimaste inalterate da secoli sono quelle dei caratteristici masùn, edifici rurali con tetto a ripide falde ricoperte di paglia di segale. I pochi esemplari superstiti si possono ammirare in Val Cavargna e in Valle Albano.

Tipici dei nuclei più antichi degli insediamenti rivieraschi (il cui impianto longitudinale dipende dalla loro collocazione lungo l’antico tracciato dell’importante Strada Regina) sono invece gli edifici addossati fra loro e molto sviluppati in altezza, i cui tetti sono coperti da piode (ossia, lastre in pietra calcarea) mentre le murature sono realizzate in pietra moltrasina. Dal punto di vista urbanistico, sono caratteristiche le strecce, ovverosia le loro stradette acciottolate e a gradoni che sfociano a lago su piazzette e piccole rive.

Le risorse agricole del Comasco

Nelle aree collinari e pianeggianti della parte meridionale della provincia, a causa della particolare natura del suolo che rende molto difficoltosa un’attività agricola intensiva, i contadini non hanno potuto godere di una vita facile.

Fondamentali, tra Cinquecento e Ottocento, sono comunque il frumento, la patata, i legumi e, soprattutto, il mais, pianta poco esigente in fatto di qualità del terreno, la cui coltivazione si diffonde a partire dal Settecento e conosce una grande esplosione un secolo dopo, allo scopo di ovviare al deficit alimentare  del periodo.

Oggigiorno non c’è più traccia dei vigneti, che erano abbondanti sia in pianura e collina, sia nell’Alto Lario, e che permettevano di ricavare un vino, il nustranell, dalla qualità piuttosto scadente in assenza di metodi di coltivazione e vinificazione più avanzati. La natura del suolo, comunque, permise, a partire soprattutto dal Settecento, un’intensa gelsicoltura, che naturalmente fu di capitale importanza per lo sviluppo dell’industria più tipica del Comasco, quella serica.

Si può quindi ben dire che nella parte collinare e pianeggiante della provincia di Como l’agricoltura abbia assunto un valore residuale, nel senso che essa non è più l’erede della tradizionale attività agricola locale, bensì una limitata rivalorizzazione produttiva di quelle risorse che sono nate o sopravvissute ai margini dell’esplosione dell’artigianato e della piccola e media industria locali.

Nelle aree montane è praticamente scomparsa: l’unica zona a coltivazione intensiva sopravvissuta è quella dei Piani di Porlezza, dove la natura pianeggiante del terreno e la conseguente presenza di appezzamenti piuttosto vasti hanno permesso il perpetuarsi dell’attività contadina.

Caratteristica della fascia rivierasca del Lario, a causa della mitezza del clima, è inoltre sempre stata la coltura delle olive. Essa purtroppo sopravvive soltanto nella nota zona della Zoca de l’Oli, attorno a Lenno. Qui gli uliveti sono ancora sufficientemente estesi, tuttavia la raccolta delle olive è ormai in fase di progressivo abbandono, poiché i frantoi esistenti sono ormai in disuso. La battitura delle olive sul Lario ha pertanto assunto, ai nostri giorni, un valore legato quasi esclusivamente alla tradizione locale.

 

CENNI STORICI DEL TERRITORIO COMASCO

Le prime tracce d’insediamento umano

Spostandoci lungo l’asse temporale della storia con ordine progressivo, le più lontane tracce di presenza umana nell’area comasca appartengono all’industria litica del Paleolitico e sono state rinvenute nell’area del Triangolo Lariano durante gli scavi nel Buco del Piombo, più precisamente sopra Erba; si tratta diuna cavità naturale, con funzione sepolcrale, percorribile in alcuni tratti dove scorre una sorgente ancora attiva[9]. Quest’area ha restituito alcuni manufatti in pietra, trovati in gran parte  lungo il greto del torrente e costituiti in prevalenza da selci lavorate con bordi taglienti che provano la presenza dell’uomo di Neanderthal. In altre località sono rintracciabili ripari sotto roccia dove un tempo l’uomo trovava dimora nella vita e nella morte; ne sono un esempio il Buco della Stregaa Magreglio,la Grotta del Maialein Valsassina,il Buco della Sabbiaa Civate divenuti anche luoghi di sepoltura. Il dilavamento del terreno, seguito all’erosione da agenti atmosferici, ha portato in superficie in un bacino compreso tra le alture di Montevecchia, in quel di Merate, manufatti denticolari di una certa rarità come raschiatoi, grattatoi frontali e microbulini per l’incisione. L’arte di scheggiare e affilare la pietra al fine di realizzare attrezzi per il lavoro e la caccia andarono perfezionandosi nel età Mesolitica.

I reperti sul monte Cornizzolosono rappresentativi di quest’età e identificano l’area come probabilmente specializzata nella lavorazione della selce, vista la buona quantità di manufatti restituiti (sono numerosi i bulini). La selce era facilmente ricavabile là dove l’erosione dell’acqua ne avesse scoperto i nuclei nelle rocce. Nel comasco, lungo il corso del Cosia, sono rintracciabili alcuni giacimenti che in antichità furono fonte di approvvigionamento. Da semplici ciotoli di questo materiale, attraverso un operazione di percussione, si scheggiava la pietra ottenendo utensili taglienti lavorati a ritocco con osso o legno di bosso adatti alle più svariate attività della sopravvivenza. E’ forse ipotizzabile che le trasformazioni climatiche che portarono dal Mesolitico al Neolitico favorirono una più marcata territorialità delle genti che impararono a conoscere il loro territorio e a comprenderne le risorse sviluppando una tendenza alla sedentarietà

La presenza di ceramiche della necropoli di Appiano Gentile testimoniano l’avvento di tempi nuovi per la società umana del comasco entrata a pieno titolo nel Neolitico maturo. Esse infatti segnano il passaggio da un‘economia basata sulla caccia e sulla raccolta  ad una caratterizzata dalla coltivazione della terra, dalla addomesticazione degli animali e dall’uso del rito funerario della cremazione, probabilmente derivato dalla cultura proto-celta di Canegrate e comune alla Lombardia occidentale, Piemonte orientale e  Canton Ticino.

Dell’Età del Bronzo sono gli insediamenti palafitticoli individuati al lago di Montorfano (Cariggiolo), ad Albate (Guzza) e presumibilmente anche a Senna Comasco (Bassone e Careggio).

 

L’Eta del Ferro. La Cultura di Golasecca nel comasco 

Sviluppatasi nell’alto corso del Ticino la cultura proto-celtica di Golasecca (X secolo a.C.), che prende il nome dal luogo in cui sono stati individuati i reperti più significativi, è sicuramente la principale cultura dell’Età del Ferro dell’Italia nord-occidentale. Fu etnicamente composta da un substrato locale, generatosi dalla facies di Canegrate, che si unì alla prima ondata di migratoria di celti d’Oltralpe provenienti dalla cultura Halstattiana. Nei dintorni di  Como è caratterizzata,  da una grande concentrazione demografica.

Dell’influenza mediatrice, che ebbe nei traffici commerciali tra il mondo d’Oltralpe e l’Etruria padana,  sono testimoni, nel comasco, gli scavi di Prestino dai quali sono stati rinvenuti: anfore attiche a figure rosse, un frammento di anfora corinzia e un diagramma d’argento proveniente dalla zecca di Populonia in Etruria[10]. Nelle vicinanze di Prestino, dell’area così detta Cà Mortasitanel parco della Spina Verde dove sorse probabilmente l’antica Komu gallica[11], è emersa una Necropoli golasecchiana, con tombe ad incinerazione fornite di corredo (X-IV secolo), i cui ritrovamenti sono conservati al Museo Archeologico di Como. In questo sito archeologico è stata rinvenuta la Stele di Prestino testimonianza fondamentale, per l’estensione del testo, di un alfabeto pre-romano di ascendenza celtica convenzionalmente definito “leponzio”, comune all’area dei laghi lombardi.

La seconda immigrazione Celta, narrata dagli storici romani (IV secolo a.C), segna l’inizio della Seconda Età del Ferro (cultura di La Tène ) che si chiude con la conquista romana, di cui ci resta la sepoltura di guerriero di Schignano (Valle Intelvi) del IV-III sec. a.C. Reperti gallici sono stati trovati anche a Candalino (Valbrona), a Pagnano (Asso), fra Valbrona e Canzo e nella zona di Magreglio. L’arrivo dei Galli, che nell’area compresa tra Adda, Po e Ticino si insediarono con la tribù degli Insubri, ai quali si deve la fondazione di Milano, determinò la quasi totale scomparsa della presenza etrusca a Nord degli appennini. Più precisamente per l’area comasca questa seconda incursione significò il lento declino della cultura di Golasecca; infatti nell’abitato della Spina Verde, dall’interpretazione dei resti archeologici, si noterebbe una contrazione degli insediamenti e della produttività. L’abitato golasecchiano non scomparve, ma semplicemente non fu più centro di riferimento culturale delle aree limitrofe perchè probabilmente sostituito dalla Milano fondata da Belloveso che portò nuovi modelli della cultura lateniana nel campo degli armamenti, della ceramica.

 Degli insediamenti celtici a Como, lo storico romano Livio (I sec. a.C.) ricorda un centro fortificato (oppidum) cui erano collegati ventotto centri minori (castella).

Altre  tracce, conservate specialmente nell’isolata Val d’Intelvi, ci raccontano di questa antica popolazione celtica, forse meno determinanti dal punto di vista archeologico ma  certamente significative per gli studi antropologici. A tal proposito sono emblematici i massi coppelliforminei pressi di Laino, Pellio, Lanzo con epicentro nel masso di Verceia, quelli di Breglia in Valsolda e di Montemezzo nell’Alto Lario e i massi avello, sarcofagi ricavati scavando in grandi massi erratici e disseminati nei boschi del comasco sopra Torno, dove non troppo distante si può vedere la pietra pendula, che in età preistorica fu lavorato fino ad avere una forma fungoidale e usato probabilmente come altare per rituali legati al culto fallico del Sole. Le coppelle incavate nella roccia, di forma circolare e scavate con un bulino ruotato su sabbia abrasiva, venivano utilizzate dalle popolazioni celtiche durante i riti religiosi di devozione agli Dei, vi si versavano sostanze come miele, birra e vino. Nel loro allineamento ricalcavano costellazioni celesti visibili in determinati periodi dell’anno solare.

 

La “romanizzazione” del territorio

Nel 222 il console Marcello vinse la forte tribù degli Insubri, che controllava l’area tra Ticino, Adda e Po, estendendo alla fascia prealpina i limiti settentrionali dell’impero sovrapponendo il sistema amministrativo romano e la lingua latina a quello comunitario dei popoli definiti barbari.

I ritrovamenti di Pianvalle (Como), delle necropoli di Appiano Gentile e Cantù (II-I sec. a.C.), di Camerlata, Mariano Comense e Intimiano documentano la progressiva “romanizzazione” del comasco attraverso un’efficace opera di legislazione e di sistemazione territoriale. Autori antichi e documenti epigrafici testimoniano l’esistenza, nella città lariana, di grandi edifici pubblici, ma solo di alcuni di questi si conosce l'esatta ubicazione all'interno del tessuto cittadino e la loro evoluzione nel corso dei secoli..

Lo scavo archeologico condotto a Como nel 1999 tra viale Varese e via Benzi ha fatto tornare  alla luce un vasto quartiere situato all’esterno delle mura della Comum romana: uno spaccato di vita cittadina compresa tra il I secolo a.C. e il V sec. d.C.; l’area fu usata prima come necropoli. Tra le tombe è emerso un edificio monumentale a sei loculi, con sepolture in recipienti di pietra ollare. Successivamente, in età imperiale, fu costruita una locanda (mansio) a cui si affiancava un enorme edificio pubblico, con grande cortile centrale circondato da porticati, corridoi e stanze. Era forse la grandiosa biblioteca offerta da Plinio il Giovane[12] alla sua città, oppure la sede di una potente corporazione. Nel III secolo a.C. un incendio devastò gli edifici, seppellendo anche la cucina della locanda. Tutta la suppellettile domestica si è però ben conservata, permettendoci di ricostruire un frammento di vita quotidiana dell’epoca. Tra la fine del III e il V secolo l’area fu riutilizzata come necropoli.[13] Si è così avuta, per la prima volta in Lombardia, una visione d’insieme cronologica di un ampio settore urbano di abitato e di necropoli di una città romana.

Le mura di Como, in parte ancora visibili, erano intervallate da torri e da porte di accesso (Porta Pretoria era la più importante). Grazie ai collegamenti fluviali Como si inserì pienamente all’interno delle principali vie di traffico commerciale. Via terra, dall’Età del Bronzo, per scambi di merci e bestiame si seguiva la “Strada Regina”, lungo la riva occidentale del Lario, che prosegue attraverso i valichi alpini[14]. Sul lago esisteva una corporazione di battellieri che portava le merci fino a Samolaco da cui si procedeva (via Chiavenna) per la Valtellina da dove partiva il commercio della pietra ollare. Anche il marmo bianco estratto nelle cave presso la sponda occidentale dell’alto lago seguiva un analogo percorso verso Como.

Alti scavi come quello di Ponte Lambro, testimoniano fasi successive di aggregazione abitative sul medesimo luogo, che sovrapponendosi una all’altra, hanno dimostrato un utilizzo ininterrotto dell’area di Incino a partire dal I secolo a.C. fino al VI secolo, testimoniato dalla presenza di monete di cui la più antica è celtica. Le parti di edificio individuate riguardano probabilmente un rustico di età romana, sorto in prossimità ad una villa, fornito in alcuni ambienti di suspensurae, poste sotto la pavimentazione in mattoni, funzionali alla circolazione dell’area calda utilizzata per il riscaldamento dei locali.

La tipologia della Villa romana tado-antica, di cui i resti di Ponte Lambro forse ne sono un esempio,  divenne, in seguito alla crisi del III secolo, un importante riferimento territoriale autonomo economicamente in quanto si sostituì alla piccola proprietà costituendo dei primi latifondi. Come nell’esempio di Ponte Lambro la villa rustica si componeva di una parte residenziale, abbellita da mosaici e decorazioni, e da una zona destinata al lavoro con ambienti funzionali.

Nel corso del IV secolo d.C., per iniziativa di S.Ambrogio, nel comasco inizia la penetrazione del cristianesimo.  L’opera di evangelizzazione si afferma nel capoluogo e nei villaggi sedi delle circoscrizioni amministrative, mentre in campagna per  molto tempo sopravvivono credenze pagane[15]. Felice viene nominato primo vescovo di Como, ma solo con Abbondio (449d.C.) si estende l’opera di cristianizzazione del territorio, utilizzando forse come punto d’appoggio l’Isola Comacina. In quest’epoca si comincia a delineare anche il sistema delle pievi e vi è la possibilità che esse ripetano l’ordinamento territoriale romano e forse addirittura quello celta.

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Longobardi e Franchi

La caduta dell’Impero (476 d.C.) e le invasioni barbariche determinano la frammentazione dell’Italia in molte autonomie locali, fino al Regno Goto che ben presto diventa oggetto di riconquista da parte dell’Impero Romano d’Oriente. In questo periodo l’area comasca ebbe un ruolo strategico, testimoniato da una serie di insediamenti fortificati (S. Stefano a Lecco, Brivio, Campanone di Brianza, Monte Barro). L’invasione Longobarda, nel 568, porta alla guerra di questi contro i Bizantini. Como, coinvolta in questi conflitti, cade in mano longobarda nel 569, ma un presidio bizantino resiste a lungo sull’Isola Comacina. Durante il periodo longobardo, che al substrato celtico latinizzato immette l’apporto germanico ravvivando le peculiarità nordiche della popolazione, il territorio viene frammentato in Fare (comunità locali) indipendenti e autarchiche. 

La città seppur svuotata del ruolo produttivo e amministrativo, mantiene una grande importanza strategico-militare come nodo vitale per le comunicazioni, direttamente sottoposta alla corte longobarda di Pavia ma priva di un duca locale. La dominazione franca, si sostituisce senza soluzione di continuità a quella longobarda. Carlo Magno introduce il regime feudale vassallatico, antitesi di quello comunitario del passato, basato sulla dipendenza personale che lega i capi militari al re contribuendo al rafforzamento del potere centrale. Ora nella provincia di Como, per la vastità delle proprietà e per la trasformazione di monasteri e di abbazie  in centri di organizzazione del lavoro, acquistano sempre maggiori poteri il Vescovo e la gerarchia ecclesiastica. Il territorio comasco appare diviso tra la diocesi di Milano, che abbraccia larghe zone della Brianza, e quella di Como, la cui giurisdizione spirituale e materiale, oltre che al Lario, si estende anche al Canton Ticino, alla Valle Mesolcina, alla Valtellina, alla Valchiavenna. L’Imperatore tenta di arrestare la concorrenza tra le grandi concentrazioni del potere ecclesiastico e parte della diocesi di Como viene concessa a quella milanese: Campione, Limonta e Civenna; a Como restano la pieve di Agno, la corte di Agnuzzo e la pieve di Bellinzona.

La politica carolingia consente di restaurare parzialmente la vita urbana anche se la vita produttiva rimane nelle campagne. Intorno all’anno Mille la struttura feudale sociale è ormai consolidata e le grandi famiglie nobili esercitano un potere totale sui propri territori.

Verso il Comune e la Signoria

A partire dall’XI secolo la città è la sede del nuovo potere economico basato sulla produzione artigiana, sullo scambio dei prodotti agricoli e sui commerci dovuti a un periodo di relativa stabilità politica. Intensa è l’attività edilizia e fuori dalle mura gli insediamenti più importanti sono i borghi e i molti monasteri. La Via Regina, diviene uno dei percorsi più ricchi di esempi architettonici medioevali. Per offrire  ricovero ai pellegrini diretti alle mete sante, lungo tutti i cammini sorsero ospizi, chiese e abbazie che, insieme ai numerosi castelli dell’epoca, sono in parte ancora oggi visibili.  Dei transiti medievali vi è pure ricca testimonianza architettonica nel comprensorio situato tra i due rami del Lario.

Nasce il Comune consolare comasco, con la redazione degli Statuti cittadini, che non ebbe vita lunga. Nel 1118 ha infatti inizio la decennale guerra tra Como e Milano, in seguito alla necessità di entrambe le città di controllare le vie di comunicazione, che si conclude nel 1127 con la resa di Como.

Federico Barbarossa scende in Italia per restaurare l’autorità imperiale sui Comuni: Como costituisce un’importante pedina in funzione anti-milanese e partecipa alla prima spedizione contro Milano nel 1154, dopo la quale il Barbarossa impone ai milanesi di sciogliere Como da qualsiasi vincolo. Nel 1159 il Barbarossa nomina il primo podestà di Como, Bernardo Rusca; i comaschi combatteranno a Legnano contro la Lega Lombarda. Nel XIII secolo, il comune è travagliato dalla lotta tra i ghibellini Rusca e i guelfi Vittani, che termina con la vittoria della Signoria dei Rusca che cedono nel 1335 la città ad Azzone Visconti in cambio del bellinzonese, iniziando l’epoca della sottomissione di Como alla Signoria milanese.

Nel 1447 finisce la dinastia dei Visconti e un gruppo di nobili milanesi crea la Repubblica di Sant’Ambrogio con ordinamenti comunali. Como proclama la Repubblica di S. Abbondio, ma è tra le poche città a restare solidale a Milano, alla quale cede la quasi totalità degli introiti daziari. Per fronteggiare l’avanzata veneziana la Repubblica ambrosiana chiamò al proprio servizio il capitano d’armi Francesco Sforza che approfittò dei successi bellici per imporre la propria Signoria. Como, assediata da truppe sforzesche, cercò di difendere la proprio autonomia, ma quando   Francesco Sforza entrò in Milano, Como si arrese (1450). Gli Sforza riformano gli Statuti di Como (1458) e l’ordinamento dei dazi, mantenendo le condizioni di favore concesse dai Visconti alla città. I commerci della città conoscono una nuova espansione grazie al rifacimento della strada Bellinzona-S.Jorio-Dongo (1465). I comaschi sono anche impegnati nello sfruttamento di importanti miniere di ferro.

 

L’occupazione francese e la dominazione spagnola.

Il Cinquecento inizia con l’occupazione dei Francesi chiamati  da Ludovico il Moro in appoggio al Ducato di Milano. Con l’occupazione straniera a Como sono definitivamente soppresse le istituzioni comunali e la borghesia imprenditoriale viene estromessa dal governo della città. L’attività produttiva e commerciale si arresta quasi completamente, in particolare l’industria laniera. In questi anni gli Svizzeri riescono a impadronirsi di Bellinzona, della Valtellina e dei territori corrispondenti all’attuale Cantone Ticino. In seguito a questi avvenimenti l’area vitale comasca fu lacerata da un confine artificiale corrispondente a quello attuale. Ma la peggio l’ebbero i sudditi degli Svizzeri, che per rifornirsi di grano si appoggiavano al mercato di Como. L’«estrazione dei grani» dalla città fu permessa ai frontalieri svizzeri solo in poca quantità per uso familiare; perciò lungo il confine si sviluppò il contrabbando di grano. Un ruolo importante l’assunsero i mugnai della Val Faloppa, divenuti punto d’appoggio per simulare il trasporto del grano da macinare, in realtà da contrabbandare oltre il confine, e i  «cavallanti» dei paesi limitrofi che prendevano il grano al mercato generale di Saronno e formando carovane notturne organizzate da signorotti locali e preti, lo trasportavano a Mendrisio, dove operavano i ricettatori. Attorno al florido mercato illegale fiorì il banditismo, con imboscate e spedizioni punitive a suon di archibugiate. Al confine contro gli “sfrosi” furono poste squadre di soldati spagnoli, che la gente chiamava «burlandotti». un nomignolo rimasto fino ai giorni nostri per designare le guardie di finanza, ancora soprannonimate «burlanda» dagli ultimi contrabbandieri di sigarette. In questo periodo tra i malavitosi brillarono nomi di famiglie illustri come i Fontana, i Lucini, e molti altri. Parrebbe nascostamente ci fosse l’alto patronato degli Odescalchi. Nel 1521 con l’aiuto delle truppe imperiali, Francesco II Sforza riacquista il controllo del Ducato fino al 1535, quando muore senza lasciare eredi, il che comporta la devoluzione del Ducato, feudo imperiale, all’Imperatore.

Lo Stato di Milano viene incorporato nella monarchia asburgica senza sconvolgimenti nel sistema amministrativo, ma in Europa alle continue lotte per l’egemonia tra i principali stati si aggiungono nuovi fermenti religiosi. Negli stessi anni prosegue l’opera degli inquisitori contro il fenomeno della stregoneria. Nel 1505-1510 è inquisitore e predicatore a Como, fra’  Bernardo Rategno.

Nel 1555, Filippo II ottiene dal padre Carlo V la corona di Spagna e la Lombardia, e Como, viene aggregata alle dipendenze degli Asburgo di Spagna. Carestia, tasse, guerre contribuiscono, nel Seicento, al completo declino dell’economia urbana. Nel 1630 una grande epidemia di peste colpisce la città più che il contado. Lungo tutta la seconda metà del XVII secolo non si notano in Como segni di ripresa e il fenomeno dell’emigrazione si fa sempre più massiccio. Più vitale si dimostra il contado, dove si riprende l’agricoltura e si moltiplicano le piccole imprese tessili, rivolte soprattutto alla filatura e alla torcitura della seta mentre si moltiplica in Brianza l’allevamento del baco da seta e coltivazione del gelso. Dove il territorio non permette un intenso sfruttamento agricolo, si fa fronte a questa carenza sommando il profitto dell’economia pastorale con le rimesse degli emigrati. Alla rinascita produttiva delle campagne partecipano non solo i proprietari terrieri ma anche le famiglie contadine, visto che telai e filatoi, per il costo modesto sono alla portata anche dei meno abbienti.

 

Il Settecento

Il passaggio alla casa degli Asburgo d’Austria (1713-14) è accolto dai lariani con una certa soddisfazione, anche se i valsoldesi furono tenacemente avversi all’Austria e resistettero contro quella convenzione che li aveva venduti ad un governo odiato. Ma il territorio del vecchio Ducato è ormai chiuso alle grandi vie del commercio. Gli Austriaci si dedicarono a una prima riforma del fisco e alla ripresa dell’industria tessile applicando decreti protezionistici, anche se la varietà dei dazi provocò il contrabbando, specie nel settore dei grani, per cui si impose ai mugnai della zone di confine una bolletta d’accompagnamento dei sacchi, con annotate le quantità trasportate. Furono numerose le proteste dei mugnai, per lo più analfabeti, preoccupati delle complicazioni burocratiche alle quali sarebbero incorsi per l’errata compilazione delle bollette. Ma quando si seppe che il mugnaio Baldassarre Mina, del Molino del Trotto di Cagno,  aveva ottenuto l’esenzione dalla bolletta per il trasporto di modiche quantità di grano fino a sei staia (circa un quintale), anche gli altri ottennero analoga esenzione dal  magistrato camerale, che allora era Cesare Beccaria.

Nel 1750, con il censimento catastale, il governo ha un quadro preciso del territorio. La vita per la maggior parte della popolazione cittadina resta misera sebbene migliore di quella che i contadini conducono nelle campagne ancora vincolata alla pesante eredità dell’epoca spagnola e caratterizzata da forti correnti di emigrazione stagionale degli uomini secondo la professione e con tradizionali mete di destinazione. Numerosi sono i neonati esposti alla “Ruota”dell’Ospedale S. Anna che comprovano la precarietà della vita di quei tempi specialmente per i nuclei famigliari. Alla seconda metà del Settecento l’introduzione del nuovo catasto rende uniformi per tutta la Lombardia i criteri di tassazione: i carichi fiscali vengono ripartiti in modo più equo e diminuisce notevolmente la quota che spetta alla zona lariana. Si avvia un rinnovamento delle colture dopo secoli di abbandono e i cereali divengono la fonte quasi esclusiva di sostentamento della popolazione. Nel territorio settentrionale della provincia la maggior parte del terreno è incolta e quel poco lavorabile è frazionato in moltissimi proprietari. Nel territorio a sud di Como è invece presente il latifondo, in genere con rapporto di dipendenza basato su fitto di grano. 

I telai a mano entrano in quasi tutte le case della città e del contado e le abitazioni divengono abitazioni-laboratorio. I setaioli di Ponte Lambro, erano diventati una sorta di Politecnico per tutte le sperimentazioni sulla seta. La “Società Pattriotica”, organo istituito dall’amministrazione austriaca per promuovere la ricerca nell’agricoltura e nella tecnica, ogniqualvolta riceveva il prototipo di un nuovo congegno tessile, lo mandava a collaudare a Ponte Lambro.  La cultura si diffonde tra le classi agiate. Tra i nobili e gli intellettuali si ricordano Alessando Volta, Giuseppe Parini, Giovan Battista Giovio, Carlo Castone Della Torre di Rezzonico e Ignazio Martignoni. Tra il 1750 e il 1795 cresce la popolazione e l’espansione edilizia; il Borgo Vico, viene trasformato in luogo di residenza  alla moda.

 

La parentesi napoleonica

Le truppe napoleoniche vincitrici giungono a Milano il 14 maggio 1796 accolte dall’opinione pubblica con una certa attesa e l’anno successivo Napoleone visita Como alloggiato nella villa La Rotonda in Borgo Vico. L’occupazione francese della Lombardia suscita speranze nei giacobini: anche nel Comasco vengono innalzati “Alberi della Libertà”, simbolo della Rivoluzione, ma i nuovi gruppi giacobini che emergono hanno scarsi legami con le masse. In particolare, gli abitanti del contado vedevano lontane e estranee le cose che succedevano in città e molte diffidenze dividevano paese e paese. Ciò sicuramente impediva un comune movimento d’opinione. Semmai entro il paese si potevano concepire circoli o nuclei rivoluzionari in collegamento con i rispettivi di altri paesi. Al di fuori di questo tipo di polarizzazione la convivenza fra le diverse classi sociali era stata cementata dall’abitudine secolare di adattarsi al governo straniero. Da noi scarseggiavano anche le ragioni per una contrapposizione tra aristocrazia e borghesia e c’era una sostanziale complicità tra nobiltà e popolo. Inoltre il rigore austriaco aveva evitato quel conflitto di interessi tra corporazioni e privilegi che in Francia avevano minato il vecchio regime. Ma solo quattro giorni dopo l’ingresso in Milano, i francesi occuparono Como. Il generale Aubernon, restituendo la cortesia che la città gli aveva fatto mandando a Milano Alessandro Volta e Gianbattista Giovio a rendere omaggio a Napoleone, fece di tutto per accattivarsi simpatie sul Lario, cercando di non far pesare  quella presenza che sarebbe stata a spese della popolazione. E nel Triangolo Lariano, già il 2 giugno, nella persona del console Giacomo Aureggi, Bellagio aveva giurato fedeltà alla Repubblica Francese e consegnate le armi in possesso dei privati.

Napoleone  affidò il potere agli esponenti della nobiltà più moderata e dei ricchi mercanti. La coscrizione militare obbligatoria decretata dal regime d’Oltralpe, per rafforzare le proprie armate, causò tumulti nel comasco. Nuovi dazi e la chiusura dei mercati austriaci imperiali fanno scendere il numero dei telai attivi. Nel 1799 un rapido cambiamento degli eventi internazionali porta nuovamente gli Austriaci in Lombardia, ma tredici mesi dopo Napoleone riconquista l’Italia e pone al centro della riorganizzazione statale della Repubblica Cisalpina il sistema delle prefetture e  dei dipartimenti; Como è posta a capo del Dipartimento del Lario che comprende anche i distretti di Lecco, Sondrio e Varese. Ma il governo napoleonico privilegia l’industria serica di Lione e la situazione produttiva comasca subisce una profonda crisi economica che rende quasi insopportabile la vita ai ceti popolari. Si diffondono sentimenti antinapoleonici con tentativi di ribellione come in Valle Intelvi, promossa dal parroco di Ramponio e dal cognato, decapitati a Como nel 1807. Dopo la disfatta napoleonica in Russia (1812) crolla il Regno d’Italia. Nel 1814 il Congresso di Vienna decide la costituzione del Regno Lombardo-veneto, aggregato all’Impero austro-ungarico.

L’Ottocento austriaco 

Nella prima meta dell’800 la popolazione comasca vive probabilmente uno dei periodi più difficili a causa della povertà e della disoccupazione e nel 1847, in più luoghi della provincia, si verificano disordini durante i quali i contadini danno l’assalto a carichi di grano. Nel marzo 1848 la rabbia popolare contro la politica austriaca esplode: Milano insorge, subito seguita da Como e da altre città lombarde. Per circa quattro mesi i territori lombardi furono retti da governi provvisori ma gli Austriaci tornati in possesso della Lombardia furono più repressivi che mai.  Poche sono le opere pubbliche realizzate dopo il 1849, ma Como è il primo capoluogo di provincia in Lombardia a essere collegato con la ferrovia alla capitale Milano. L’economia lariana resta centrata sull’industria serica, ancora familiare o artigianale, anche se in Brianza si assiste al progressivo decollo della produzione dei mobili, ma l’atrofia del baco, la crittogama della vite e lo scarso raccolto di frumento e granoturco provocano un brusco freno all’agricoltura e dalle zone più povere delle montagne lariane, così duramente colpite, si inizia a espatriare alla ricerca di una maggior sicurezza economica.

Lo stato unitario

Nel 1859 il Piemonte intensifica i preparativi per la guerra con l’Austria. Numerosi giovani, di estrazione borghese più che contadina, per potersi arruolare con il Piemonte si sottraggono alla leva militare austriaca. I volontari comaschi nell’esercito piemontese a San Fermo si scontrano con le retrovie austriache. La battaglia costò la vita a dodicimila uomini. La Lombardia è staccata dall’Impero austro-ungarico dopo una guerra breve. La popolazione lariana ha accettato passivamente gli eventi, pur parteggiando per i piemontesi. Negli anni che seguono l’unificazione, la nuova situazione politica è spesso oggetto di proteste e di malcontento, soprattutto a causa della totale soppressione degli istituti amministrativi precedenti, sostituiti da quelli dello Stato unitario.

La prima metà del XX secolo

La prima metà del XX secolo vede Como coinvolta, come tutta l’Italia, nella Grande Guerra (1915-1918) e nell’avventura del Fascismo culminata nella tragedia della Seconda Guerra Mondiale e benché allo stato attuale degli studi, sebbene esistano alcuni lavori che presentano vari spunti di interesse, manchi ancora un’opera d’assieme che ricostruisca in maniera adeguata la storia di Como lungo tutto l’arco del periodo fascista, di particolare importanza nel Comasco è la lotta partigiana durante la Resistenza, anche perché proprio qui Mussolini e molti gerarchi conobbero l’epilogo della loro storia. 

Per quanto riguarda la prima guerra mondiale, ancora presente nei ricordi di molti anziani, richiama la nostra attenzione il tratto di linea Cadorna[16][i] sulle Prealpi lariane. Alle spalle di Como due erano i bastioni fortificati che controllavano l’accesso dalla Svizzera: il Sasso Cavallasca e il Monte Bisbino. Sulle pendici del Sasso Cavallasca, risalite da una bella mulattiera militare, le fortificazioni sono oggi completamente ricoperte dalla fitta vegetazione che ricopre il Parco della Spina Verde. L’occupazione militare del Monte Bisbino avvenne nel 1916 con la costruzione della strada di 12 chilometri che collegava Rovenna alla vetta e che solo per alcuni tratti andava a sovrapporsi alla vecchia mulattiera selciata.

Ad oriente del Monte Bisbino venne poi fortificata la linea di cresta divisoria tra Italia e Svizzera trasformando in capisaldi le montagne che delimitavano la Valle Intelvi: il Monte Colmegnone, il Sasso Gordona, il Monte d’Orimento, la Seghignola, il Monte Pinzernone, ma soprattutto la costiera Monte di Lenno-Monte Calbiga- Monte di Tramezzo e Monte Procione che dava sul bacino del Lago di Lugano e sulla Valle di Porlezza. Una fitta rete di strade si diramava in ogni direzione collegando i paesi di fondovalle (Schignano, Casasco, S. Fedele, Lanzo, Ramponio-Verna) alle numerose postazioni di batteria.

Essendo tutte le opere della Valle Intelvi situate in zone vicine ai centri abitati o soggette al taglio del fieno e al pascolo, al termine della guerra gli abitanti hanno poco alla volta tolto tutte le strutture in pietra, sia per recuperare materiale da costruzione, sia per ridurre i rischi per il bestiame. Completamente inerbate, le piazzole delle artiglierie si presentano così oggi spesso di difficile individuazione e di interesse solo documentale. L’unica eccezione è costituita dalla batteria blindata situata al “Colle” tra il Monte Calbiga e il Monte Tremezzo che per la sua posizione isolata ha conservato notevoli opere in muratura.

 

CENNI SULL’ARTE NEL TERRITORIO COMASCO

Nel tracciare un percorso storico-artistico lariano a partire circa dall’età alto-medioevale (delle testimonianze archeologiche celtiche e romane si è ampiamente parlato nella sezione storica) è opportuno risalire la sponda occidentale del Lario, partendo da Cernobbio fino a Gravedona, costeggiando il lago, in quanto  quest’area abbonda di testimonianze artistiche del passato, dipese dall’importante Via Regina che l’attraversa. Lungo quest’asse viario, che conduce ai valichi alpini, come già ribadito sono numerosi i reperti di età romana specialmente a Gravedona ma l’elemento rilevante, che ne fece la fortuna e che costituì un motivo di continuità nell’arte del territorio comasco grazie alla sapiente abilità delle maestranze comacine, è da attribuirsi alle cave di Musso i cui marmi furono trasportati e usati non solo per erigere opere locali ma, raggiunsero Milano come attestano le colonne di San Lorenzo.

La conoscenza matura della lavorazione della pietra e della costruzione architettonica sviluppò, in area comasca probabilmente già nell’alto-medievo secondo la tradizione storico-artistica, una categoria di artigiani, i Magistri Cummacini, che presto ebbero notorietà internazionale e che diffusero il linguaggio del romanico ben oltre il territorio comasco in cui presumibilmente si formarono (gli studi più aggiornati invece ipotizzerebbero i maestri comacini come invece originari di Genova). Per il periodo appena successivo, la storia di Benedetto Antelami, forse originario della Val d’Intelvi secondo una tradizione che così ne interpreta il “cognome, principale interprete della cultura romanica, si ricostruisce attraverso i numerosi spostamenti dell’artista e per questo va a chiarire quella di tanti altri artisti-artigiani medioevali che si mossero lungo gli assi commerciali e dei pellegrinaggi, sostando là dove la committenza esprimesse volontà in campo artistico.

Le costruzioni medioevali che nella struttura architettonica utilizzano materiali di reimpiego dimostrano la qualità della lavorazione della pietra, in area comasca, anche in epoche antiche e la preziosità di tale materia che non poteva andar dispersa. A questo proposito valgano come esempi la chiesa plebana di San Eufemia a Incino, nel tiangolo lariano, o il portale di San Vincenzo a Gera e di Santa Maria del Tiglio a Gravedona che nella tessitura muraria inglobano anche pezzi altomedioevali. 

Quest’ultima chiesa plebana descrivere la complessità delle relazioni storiche e delle sovrapposizioni artistiche in età romanica e consente una lettura “stratigrafica” che è possibile applicare a numerosi edifici sacri, che raramente sorgono dal nulla ma si appoggiano, in stretta relazione di continuità, a fondazioni precedenti rinnovandole.

Santa Maria del Tiglio(Gravedona) sorge su di un edificio paleocristiano battesimale, rappresentato dalla vasca per le immersioni e da un lacerto di pavimentazione musiva, poi rinnovato dal linguaggio architettonico romanico nel XI secolo avviatosi dalla vicina plebana di San Vincenzo. Le relazioni con il mondo europeo, molto frequenti in area prealpina, sono evidenti nell’Crocefisso di impronta renana da ricondursi ai possibili scambi con il mondo d’oltralpe lungo il passo di Sant Jorio.

Sul lago di Mezzola all’estremo nord del Alto Lario è stata individuata quella che si ritiene debba considerarsi la fonte ispiratrice architettonica e simbolica del romanico comasco che tanto fece scuola, la chiesetta di San Fedelino (X secolo) in quanto presenta una tipologia destinata a ripetersi come  modello stilistico rappresentativo. I caratteri distintivi sono costituiti da un aula quadrata con volta a crocera, da una trama muraria disomogenea formata da materiale di recupero e grossi ciotoli, da un abside semicircolare corredata di lesene e archetti ciechi e da una perfetta collocazione nell’ambiente naturale dovuta alla predilezione per la pietra come materiale costruttivo. Anche gli affreschi dell’abside, oltre all’impianto architettonico,  assieme a quelli dell’abbazia di Piona costituiranno un modello iconografico destinato ad un certo successo.

Durante il basso-medievo l’alto Lario, in merito alle guerre tra Como e Milano, fu soggetto anche ad opere di forticazione (spesso consolidamenti di strutture militari dell’età romana) testimoniate dal castelli di Gravedona, di Livio, di Germasino, di Rezzonico e dalle torri di Cremia e di Sorico. La presenza di elementi utili alla segnalazione, a scambi e influssi tra le diocesi di Como e Milano tocca, per le medesime ragioni storiche, anche l’area del triangolo lariano attraverso una fitta rete di torri campanarie  romaniche, che alleggeriscono la struttura alla sommità con il susseguirsi verso la sommità di aperture a monofora, bifora, trifora, distribuite da Faggeto Lario a Barni, da Megreglio a Rezzano, da Caslino a Lasnigo. In seguito alla liberazione di Como dalla soggezione milanese, per merito del Barbarossa, si avviò la più imponente opera di fortificazione medioevale dell’area, le mura difensive diComocon le torri che ancora oggi, visibili in alcuni tratti, sono simbolo d’identificazione per la città stessa.

Della fase Medioevale non possono essere trascurati gli importantissimi affreschi (1250-1260) dell’abbazia di Piona sopracitata, oggi in provincia di Lecco, costituiscono un esempio specifico su tutto il territorio lariano fornendo modelli di riferimento contenutistico espressi in uno stile arcaico. Questi raffigurano i mesi scanditi dalle periodiche attività umane e della strumentazione agricola in uso, che spesso assumono connotazioni molto locali come si evince nella rappresentazione di Agosto, dove viene mostrata la cerchiatura e la preparazione delle botti per il vino nuovo tipica dell’area peninsulare, o di Giugno in cui la mietitura avveniva con l’ausilio di falcetti descritti minuziosamente e ancora in uso oggi.  Le tradizioni iconografiche dei calendari bizantini di origine greco-orientale, nelle quali ad ogni mese corrisponde un personificazione simbolica, si uniscono nel ciclo di affreschi di Piona a quelle di origine occidentale, dove al simbolo si sostituisce la visione pragmatica di un uomo intento a svolgere l’attività tipica di quel mese. Nella tribuna interna di Sant Abbondio a Como, dove ora è ospitato l’organo, ci si imbatte in un ciclo d’affreschi dedicato alla vita dei santi, che come nel caso di Piona, testimonia, con descrizioni puntuali, le macchine e gli attrezzi agricoli tipici del Medioevo.

Per quanto concerne la tradizione quattrocentesca nell’area comasca è doveroso segnalare la diffusa e intricata presenza, documentata, di maestranze pittoriche itineranti che aggiornano, con le loro opere distribuite in diverse aree del comasco, i linguaggi figurativi ai modelli  milanesi rielaborandoli  in chiave locale.

In Brianza la famiglia De Magistris, formata da artisti rinascimentali di provincia, lascia numerose tracce in San Fedele a Como, in alta Brianza a Bellagio, nella Villa Melzi e nella chiesa di San Giovanni a Domaso in Alto Lario. Andrea Passeri introduce interessanti novità ferraresi apprese alla bottega di Baldassarre Estense evidenti a Torno in Santa Tecla che influenzeranno Stefano Vergosio nella chiesa parrocchiale di Consiglio di Rumo. Mentre Alvise De Donati, insieme  a Gottardo Scotti, lascia numerose opere in alto Lario e in Valtellina, esportando la nuova cultura milanese di Zenale, Leonardo, Foppa e Bergognone. Questa fitta trama di relazioni ci informa sulla frequente circolazione di cartoni, disegni preparatori  e del temporaneo soggiorno di pittori locali presso le più note botteghe padane del tempo e non solo, in quanto durante il Quattrocento molti artisti lariani, valsoldesi e intelvesi, campionesi, e ticinesi migrano in tutta Italia ed in Europa rendendo internazionale la produzione artistica locale e riportando nel comasco, in età barocca, maestranze aggiornate e qualitativamente elevate come nel caso di Pellegrino Pellegrini e di Leone Leoni.

Nell’Alto Lario il convento agostiniano di Gravedona diventa il centro irradiante  di una rilevante novità pittorica, oltre ai modelli metropolitani, le stampe nordiche specialmente dureriane diventano nuove fonti iconografiche. In ambito scultoreo la presenza di Giovan Pietro da Musso al portale del convento sottolinea il grande apporto delle maestranze locali.

L’avviarsi dell’età post-tridentina ingenererà quel fenomeno di ammodernamento dei centri religiosi ai nuovi modelli barocchi e manieristi promossi dalla controriforma. Molte delle facciate di età romanica scompaiono dietro a quelle barocche, similmente a quello che accade per gli affreschi trecenteschi e precedenti, ricoperti dai nuovi soggetti di devozione popolare. Anche gli spazi architettonici vengono riformulati tenendo presente le nuove esigenze dettate dall’incremento demografico; in questa prospettiva le volumetrie delle chiese furono ampliate con spazi laterali o con l’aggiunta di nuovi ambienti come le sacrestie e il presbiterio, che fu enfatizzato con spettacolari affreschi raffiguranti Assunzioni al cielo della Vergine o di Cristo in una coralità di angeli e Santi. 

I rari argomenti figurativi del passato ad essere considerati meritevoli di attenzioni riguardano in prevalenza i soggetti legati ai culti mariani, aderenti ai temi della pietà cristiana propagandati dalla controriforma che dirotteranno i fedeli alla venerazione di immagini evangeliche di forte emotività come i Compianti, le Crocefissioni, le Natività, il Martirio dei Santi, le Storie della Vergine. Nel Cinquecento numerose sono le edificazioni di Santuari dedicati al culto mariano come la Madonna dei Miracoli a Rezzo di Porlezza fondata nel 1556. Sul territorio comasco da Cernobbio, alla Valle d’Intelvi, dall’Alto Lario alla pianura brianzola e alla prealpi occidentali tra Cinquecento e Seicento si avvicenderanno le visite pastorali e apostoliche  del Volpi, del Ninguarda, del Bonomi che porteranno l’aggiornamento ai nuovi linguaggi iconografici barocchi e manieristi espressi in grandiosi opere di artisti come il Fiammenghino, protagonista di questo rinnovamento lungo tutta la sponda occidentale del lago, di cui si segnala un’opera pittorica con tema una visione dell’Inferno degna di nota, sita a Peglio in Sant Eusebio.

La stagione pittorica manieristica del Morazzone, ottimo interprete della nuova pittura, lascia echi in tutta l’area comasca, quella scultorea ha il suo epicentro nella Valle Intelvi con la personalità di Giovanni Battista Berberini “scultore in stucco”, dalle forti influenze bolognesi, che decora Santa Maria del Garellio a Pellio (1645) e San Lorenzo di Laino. Ma il più radicale adeguamento ai dettami tridentini a coinvolto l’Alto Lario per la sua vicinanza ai Grigioni protestanti. Prima ancora che ad Ossuccio si erigessero le cappelle dei Misteri del Rosario, tutta l’area poteva ritenersi un Sacro Monte destinata a non lasciar incertezze di fede ai valligiani troppo esposti all’eresia d’Oltralpe. In questo contesto sono da spiegarsi gli ammodernamenti nella chiesa di Montemezzo, che ampliò la propria struttura nel XVII secolo, aggiungendovi due cappelle laterali costruite con i soldi degli emigranti comaschi.

Il Settecento Lariano vede come protagonisti gli artisti “emigrati” che oramai hanno raggiunto fama europea, si tratta in alcuni casi di vere e proprie dinastie artistiche succedutesi di generazione in generazione come per le famiglie intelvesi dei Carloni, dei Quaglio, dei Ferretti, dei Berelli, dei Retti. Altri settori complementari alle arti continuano la tradizione affermatasi durante il Seicento come la lavorazione delle scagliola (gli stucchi), l’oreficeria sacra, i tessuti liturgici, raccolti nel museo di Scaria. Sul piano architettonico tra i due secoli  risultano numerose le cappelle della Via Crucis conservate a Cerano, Ponna e Laino.

 

Il Neoclassicismo lariano

Il concludersi del Settecento con le vicende napoleoniche, che mineranno le radici sociali e politiche delle aree conquistate, porterà all’indebolimento, fino alla quasi totale scomparsa, della vitalità artistica locale alla quale subentreranno modelli esterni di importazione europea. Così sarà per la maggior parte delle realizzazioni neoclassiche sacre, per la mitica civiltà di villa fiorita  a Cernobbio e a Moltrasio, per il periodo del Liberty e dell’eclettismo rappresentato da Villa Cirla del Sommaruga. Le formule stilistiche sono derivate dall’esterno, dagli ambienti francesi e tedeschi e inglesi, e riproposti senza una profonda rielaborazione culturale di substrato incapace di una comprovata originalità di linguaggi. Certo è che nell’indagare le vicende artistiche del comasco non è possibile trascurare l’impatto che il neoclassicismo settecentesco ha lasciato sul territorio grazie alla sviluppatissima edilizia suburbana di ville residenziali. La villa è per tradizione la più significativa protagonista del paesaggio lariano palesando, nella ricchezza dei suoi impianti, quell’inseparabile vincolo tra il potere, celebrato nello status sociale, e  il mecenatismo artistico che ne diviene il linguaggio espressivo. Non va inoltre dimenticato che il neoclassicismo giunge, anche nel comasco, mediato dalla cultura francese importata da Napoleone con il proposito di resuscitarvi i simboli e la maestosità della passata gloria romana alla quale il suo impero si ispirava. Anche se inizialmente carica di idealità, questa corrente stilistica, che ebbe come guide il teorico Winckelmann e il pittore francese David, presto assunse i connotati superficiali di una moda altamente decorativa (si pensi al cento tavola del Vicerè di Villa Carlotta) sempre più distante dalle motivazioni ideologiche che ispirarono i suoi iniziatori. La sponda occidentale del Lario è il luogo per eccellenza di queste realizzazioni dove spiccano per bellezza il gruppo di ville neoclassiche del Borgovivo, delle quali fa parte l’esemplare villa Olmo opera di Simone Cantoni, e la Villa Carlotta di Tremezzo, dove restano testimonianze di Thorvaldsen, uno degli scultori più noti del neoclassicismo internazionale, e di Appiani che vi dipinge nel 1808 L’apoteosi di Napoleone. Villa Carlotta è posta quasi frontalmente a Villa Melzi a Bellagio,  situata sull’opposto vertice settentrionale del triangolo lariano e ideata da Giacomo Albertolli all’inizio dell’Ottocento.

Le tipologie architettoniche ripetono sia l’impianto ad “U” dell’edificio, davanti al quale si staglia un vasto giardino all’italiana lasciando al retro il compito di ospitare un giardino all’inglese con folta vegetazione, sia quello lineare con al centro il grande salone di rappresentanza. Se la decorazione dell’esterno è sobria quella degli interni è ridondante di elementi decorativi d’arredo che si concentrano particolarmente nei luoghi simbolo della dimora neoclassica: l’atrio d’ingresso, il salone da ballo, lo scalone, la cappella di famiglia, il teatro.

Il Settecento e l’Ottocento contribuiranno a creare una forte immagine romantica e letteraria del lago con le sue grandiose ville che ospitarono personaggi illustri, come il Parini a Villa la Qiuete a Tremezzo, o che fecero lo sfondo per le ambientazioni sul Ceresio di Fogazzaro, in Piccolo mondo antico.

Anche il Razionalismo, del periodo fascista, ci ha lasciato delle tracce significative che non hanno potuto evitare di confrontarsi con la forte idealità che l’ambiente lacustre è in grado di ispirare come accade per la Villa Amila di Tremezzo, opera di Pietro Lingeri (1927), che presenta una forma originale a nave e per il monumento ai Caduti di Giuseppe Terragni (1926-1932). Ma certamente il Razionalismo incise radicalmente sull’aspetto architettonico-urbanistico che coinvolse la città di Como e comuni limitrofi quando, nel 1934, fu varato un concorso per lo studio  del Piano Regolatore della città, vinto dal gruppo C.M.8 composto da architetti comaschi e milanesi, che richiedeva un’operazione di riprogettazione funzionale delle infrastrutture cittadine a cui seguirono pesanti sventramenti.

 

Como. La chiesa di Sant Abbondio 

Nella fase romanica la chiesa di San Abbondio sorgeva sulle fondamenta di una precedente basilica paleocristiana, dedicata ai SS. Apostoli Pietro e Paolo. Il  perimetro dell’antica chiesa fu evidenziato dal sacerdote Serafino Balestra, durante gli scavi archeologici che riportarono alla luce abbondante materiale lapideo: plutei pietre iscritte ecc di un certo interesse per lo stile intrecciato dei decori, che ci permette di assegnarli all’età carolingia, e per alcune  figurazione molto arcaiche. Come molte chiese coeve, dell’area lombarda, anche San Abbondio fu orientata simbolicamente lungo l’asse di orientamento Est-Ovest (direzione in cui sorge e tramonta il sole).

Nel XI secolo si ebbe il totale rinnovamento della chiesa trasformata nella dedicazione dal Vescovo Alberico e nella destinazione in un monastero benedettino. In questo periodo il monastero ricevette cospicue donazioni che diedero la possibilità ai monaci di edificare una chiesa di grandi dimensioni come è quella attuale (consacrata nel 1095 da Papa Urbano II). La particolarità architettonica di quest’edificio risiede nel coro, esteso per ben 18,75 metri dietro l’altare in asse con la navata centrale. Furono questa ed altre originalità (i capitelli cubici presenti anche nelle chiese tedesche) che permisero di studiare l’edificio comparandolo con quelli d’oltralpe, ad esso coevi come le strutture ecclesiastiche borgognone e normanne. L’appartenenza dell’edificio ai monaci benedettini, che in Cluny avevano il loro centro di riferimento, ha certamente influenzato le tipologie costruttive della chiesa. A sua volta San Abbondio costituì probabilmente un modello di riferimento per le chiese vicine come suggerirebbe il confronto con San Eufemia dell’Isola Comacina, Alla sua realizzazione attesero le maestranze comasche che tentarono di adeguare la tradizione locale, decisamente più rustica, alle novità d’oltralpe. La decorazione esterna e quella del portale (XI secolo), sono molto interessanti. Si tratta di rappresentazioni simboliche tipicamente medievali: animali quali aquile e felini, mostri, tralci e grappoli di vite quasi sempre legati tra loro da racemi e foglie trattate con la semplificazione formale del romanico.

 

ATTIVITA’ PRODUTTIVE E COMMERCI NELLA STORIA COMASCA

Fin dall’Età preistorica sono i caratteri ambientali dell’area lariana a fissare i fondamenti delle attività produttive; la povertà del suolo, in gran parte montano, impedì una pratica agricola redditizia, anche quando nel periodo neolitico la crescita della popolazione richiedeva maggior quantità di cibo a disposizione. L’attenzione allo studio dei resti paleobotanici e paleofaunistici, non disgiunti da un’attenzione all’evoluzione pedologica dei siti è, però, troppo recente e non sempre è disponibile una documentazione locale esaustiva. Nell’area comasca l’impatto antropico del Neolitico - periodo durante il quale i gruppi mesolitici, grazie anche all’accresciuta conoscenza dei vegetali spontanei, fecero proprie le innovazioni economiche collegate all’agricoltura – pare comunque poco profondo, almeno sulla base delle odierne conoscenze ricavate soprattutto dal confronto con i diagrammi pollinici di località situate spesso alla distanza minima di circa 30 km in linea d’aria da Como.

Gli inizi della deforestazione con la conseguente messa a coltura di aree sembrano collegabili nel territorio comasco alle Età del bronzo e del ferro. Unica probabile eccezione era l’allevamento di bovini, ovini e suini, agevolato dalla presenza di prati e boschi dove condurre il pascolo brado. Anche sul versante della produzione di manufatti è da ipotizzare, complice la scarsità delle materie prime, un’attività modesta[ii], mentre sul versante commerciale la posizione di Como e di altri centri lariani fece la fortuna del territorio come testimoniano i ritrovamenti dello scavo di Prestino. Agricoltura stentata, artigianato modesto, sviluppo del commercio sembrano essere delle costanti anche in epoca romana. A tale proposito, però, gli scavi di Schieppo, a Ponte Lambro, potranno fornire maggiori precisazioni in quanto proprio l’ipotizzata “villa” rustica di Schieppo rappresenta un interessante esempio di costruzione sorto almeno in Età imperiale e abitato anche nei difficili secoli dell’Alto Medievo. Coltelli, asce, falcetti, cesoie e l’attrezzatura per la pesca rinvenuta in una tomba di Colonno testimoniano attività produttive dell’epoca romana legate allo sfruttamento delle risorse naturali; le fonti storiche parlano anche delle comacinae pernae, i salumi di Como, che implicano la presenza di allevamenti di suini, favoriti dall’estensione dei querceti.

Le valli e le vette delle Lepontine comasche, per esempio, così come il Lario, sono da sempre ideale via di collegamento tra la Pianura Padana e le terre d'Oltralpe; in particolare, il Passo di S. Jorio, che si raggiunge con una brevissima deviazione dall'Alta Via del Lario, ha costituito per molti secoli, già a partire dall'epoca romana, una via di comunicazione di assoluto rilievo, collegando i Grigioni e Bellinzona al Lago di Como. Tra le varie mercanzie di interesse commerciale (latte, drappi, spezie, formaggi, cuoio ecc.), vi passò in epoca medioevale anche il minerale di ferro estratto dai giacimenti della Val Morobbia e della Valle di Dongo.

E’ però dall’Alto medioevo che disponiamo di più consistenti documenti sull’organizzazione dell’attività agricola. La marginalità del mercato fece dell’autoconsumo lo scopo fondamentale al quale tendeva l’organizzazione produttiva. Dalle fonti disponibili, risulta che l’economia era improntata sul modello silvo-pastorale affiancato alla produzione agricola. La prevalenza di uno di questi due sistemi sull’altro, variava a seconda delle zone; innegabile però, è l’importanza attribuita allo sfruttamento delle aree incolte per le attività di caccia, pesca, allevamento del bestiame brado e raccolta di frutti spontanei. Nell’alta pianura lo spazio occupato dalle terre coltivate superava quello dell’incolto, ma quest’ultimo era esteso prevalente nell’alto lago.

I documenti inerenti la struttura produttiva della corte di Limonta, presso Bellagio, tra il VIII e il IX secolo, testimoniano che anche nel comasco si impianta il Feudalesimo e la proprietà è divisa tra una pars dominica gestita direttamente dal signore, per lo più mediante il ricorso all’impiego di schiavi e di prestazioni di lavoro obbligatorie e gratuite degli affittuari, e una pars massaricia articolata in mansi affittati a servi dietro pagamento di canone quasi esclusivamente in natura. Sono documentate la segale (più resistente del frumento al clima e ai terreni poco fertili del comasco rappresenta il cereale principale), l’orzo, il vino, l’olio e un discreto allevamento di maiali e pecore. Queste caratteristiche dell’attività agricola trovano conferma nella raffigurazione del Ciclo dei mesi dell’abbazia di Piona, databile ipoteticamente 1250-1260.

Elemento fondamentale dell’economia, anche degli enti monastici, era costituito dall’orto, parte integrante del nucleo abitato ed oggetto di cure che permetteva una produzione intensiva. I documenti testimoniano la presenza di orti con queste caratteristiche a Sorico, Balbiano e sull’Isola Comacina. Nel Comasco la risorsa forestale per eccellenza era il castagneto, un “bosco coltivato”, risultato di una scelta economica precisa. Un mondo in precario equilibrio che sembra essere rotto dall’attività dei magistri cummacini, le maestranze lariane – se di gruppi lariani si trattava – che grazie alla loro abilità costruttiva rappresentano un’alternativa di successo all’arretratezza dominante nel territorio comasco.

Il superamento della fase critica dello sviluppo medioevale mette in circolazione denaro e mezzi di cui Como beneficia, in posizione centrale negli scambi fra Italia peninsulare e mondo d’Oltralpe. A questi rinnovati fermenti basso-medioevali si accompagna lo sviluppo della manifattura laniera, organizzata nell’industria cittadina a domicilio, e in breve tempo Como e Torno, per esempio, riescono a esercitare una discreta concorrenza anche nei confronti di realtà urbane ben più consistenti. Il rinnovato slancio economico ebbe come fondamento la riprese dell’incremento demografico che fu resa possibile da modificazioni nell’assetto climatico ed epidemiologico. Como era favorita dalla sua posizione geografica di terra di confine e fino al 1335 fu un libero Comune abitato da liberi cittadini e i suoi mercanti, già da tempo organizzati in una Societas mercatorum, nel 1281 si spinsero fin nel cuor dell’Europa ad operare i loro traffici. L’oggetto principale delle transazioni era costituito dalla lana. Un fiorente commercio collegava il comasco ai cantoni elvetici. Lungo il XIV e XV secolo furono sottoscritti numerosi accordi commerciali volti a favorire l’esportazione di merci comasche e l’importazione, esente dal gravame dei dazi, di prodotti elvetici.

Il successo economico si misura anche nella crescita del potere politico della città, a lungo rivale di Milano e persino quando il comasco diventa un segmento della Signoria milanese, lo sviluppo economico non si arresta e la regione lariana vive tra il 1350 e il 1550 una sorta di apogeo che si traduce in ricchezza dell’arredo urbano, dilatazione dei commerci e benessere degli abitanti sebbene non esente da momenti di difficoltà e di crisi. Così mentre il mondo agricolo continua a non esprimere novità di rilievo - a parte forse l’avvio della coltura dei gelsi verso la fine del Medioevo - già all’inizio del ‘600 il rallentamento delle attività manifatturiere e commerciali all’interno della città è evidente, anche se la città insiste nei suoi rapporti con le più importanti piazze europee e rivede i suoi legami col contado dove viene spostata – non senza fasi di difficoltà - una parte della manifattura alla ricerca di più favorevoli condizioni di sviluppo. Ma più che di crisi si tratta di riassestamento. Ecco perché con il Settecento, benché nell’ambito agricolo tutto permanga sostanzialmente arretrato, almeno per la maggior parte del territorio lariano, (una fonte primaria settecentesca per lo studio dell’agricoltura è il catasto in vigore dal 1760) nella regione comasca sono le manifatture, in particolare il setificio[iii], che preparano il terreno per una rinnovata crescita che avrà soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento il suo massimo sviluppo e darà al territorio l’assetto che lo contraddistingue ancora oggi. La scelta industriale resta irreversibile anche se conosce andamenti non sempre lineari.

 

Il contrabbando

La vicinanza del confine elvetico, la cronica mancanza di lavoro nelle zone montane e la miseria di un’agricoltura di sussistenza contribuirono a far sì che le Valli lariane diventassero  luoghi del contrabbando (ossia la violazione al bando, cioè alla legge, da bannum, termine di origine spagnola).  L’introduzione clandestina di merci in Italia attraverso il confine, soprattutto generi di monopolio, per non pagare su di esse i dazi fu un fenomeno economicamente rilevante per i valligiani comaschi. L’attività di contrabbando, già sviluppata prima del 1848, si fece più intensa dopo l’unità d’Italia, raggiunse un apice nel periodo fra le due guerre venne un po' da tutti considerato un lavoro di supporto all'economia locale, di fatto equiparato ad una qualsiasi altra occupazione. Artefici della pratica, dall'800 sino ai primi anni '70 del Novecento, furono tenaci e coriacei valligiani denominati spalloni o sfrosatori (dal termine dialettale sfroos, attività di frodo), abilissimi nel conoscere e percorrere ogni angolo di frontiera, per quanto impervia essa fosse, trasportando carichi di 30-35 kg di mercanzie ed altrettanto impavidi nello sfuggire ai doganieri gettandosi rotolando a capofitto lungo i pendii erbosi. Alla buona riuscita dello sfroso contribuivano svariati stratagemmi, come l'impiego di un apripista, lo stellone, o quello di linguaggi convenzionali. Nei recipienti utilizzati dagli spalloni, le bricolle, rette da polloni di castagno o nocciolo snervati e attorcigliati, trovavano posto svariati generi alimentari, riso, saccarina e sale, almeno sino al secondo conflitto mondiale, e sigarette (le bionde) nel dopoguerra. Caricate sui sandolini, snelle imbarcazioni dal fondo piatto, le bricolle erano trasportate dalle vallate del Lario Occidentale nei paesi rivieraschi del Triangolo Lariano e da qui smistate in Brianza secondo le più diverse direttrici. Dell'epopea degli sfrosatori restano i racconti riportati sulle pagine dei quotidiani locali o tramandati per via orale. La loro importanza non risiede ovviamente nell'esaltazione di un'attività illegale bensì nell'intrinseco valore testimoniale di un momento storico e di una società del tutto peculiare.

Ancora a fine Ottocento l’agricoltura, che occupa comunque una considerevole quota di popolazione della provincia, tenta di ricorrere a strumenti nuovi, ma destinati a fallire, come il cooperativismo.

Nel corso del Novecento, dopo la fine del fascismo, si assiste a un generale miglioramento del tenore di vita della società lariana e allo sviluppo dell’industria del turismo, un’attività che avviatasi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento come divertimento tutto borghese, si estende progressivamente a fasce sociali sempre più ampie.

 

Le risorse della  montagna

Percorrendo il territorio, però, non si può fare a meno di intravedere tra le pieghe del paesaggio le testimonianze della presenza umana, sovente risalenti ad un passato, neppure troppo lontano, nel quale il territorio costituiva ancora la principale fonte di sostentamento per le popolazioni locali. Se consideriamo la montagna dell’Alto Lario occidentale, ad esempio, il limite dei boschi, innaturalmente basso, testimonia l'intensa azione di diboscamento operata nei secoli scorsi per la lavorazione del ferro e l'ampliamento dei pascoli. Qua e là frequenti tracce di incendi e dissesti pongono con urgenza l'esigenza di una più corretta gestione degli equilibri ambientali. Svariati manufatti distribuiti lungo il percorso rappresentano i segni più tangibili dell'azione umana: in primo luogo gli alpeggi o alpi (o ciò che resta di loro) e i muretti a secco per il contenimento del bestiame (localmente denominati mutate). Un tempo tutti gli alpeggi erano abbondantemente caricati in coincidenza con la festa di S. Giovanni, il 24 giugno. Oggi molti di essi non sono più utilizzati, altri lo sono solo per il pascolo di manze e vitelli ma alcuni continuano ad essere attivi, affittati dai comuni a gruppi di famiglie che ne organizzano la gestione, svolta dal pasteur che pascola il bestiame e dal casè che lavora il latte per produrre il burro ed il formaggio. La pastorizia permane dunque una realtà nell'Alto Lario, malgrado sia prevalentemente orientata all'allevamento semibrado di ovicaprini, in minor misura di bovini. Tale situazione comporta la necessità di affrontare e risolvere problematiche quali l'impoverimento qualitativo dei pascoli e degli alpeggi, e le interazioni tra gli ovicaprini e gli Ungulati selvatici. A tale riguardo occorre purtroppo constatare come ad un'aumentata disponibilità di risorse, rappresentate dai crescenti incentivi finanziari per il recupero della montagna, solo occasionalmente corrispondano progettualità di ampio respiro, in grado di rilanciare dinamiche di sviluppo vincenti e al contempo compatibili con la tutela ambientale.

Oggi gli alpeggi conservano un indubbio interesse etnografico e culturale, ma in qualche modo rischiano di diventare realtà sempre più avulse dal contesto che li circonda. In un passato anche abbastanza recente, essi costituivano invece gli elementi cardine del tessuto socio-economico della montagna lariana e la loro frequentazione scandiva i ritmi stessi dell’esistenza. La tutela, il recupero e il miglioramento qualitativo dei pascoli e degli alpeggi rappresentano quindi, obiettivi auspicabili, soprattutto per la conservazione di elevati livelli di ricchezza biologica e culturale. Tuttavia, così come appare anacronistico e svincolato da logiche economico-ambientali ogni tentativo di “ricreare” le condizioni esistenti in montagna sino all’ultimo dopoguerra, altrettanto opportune sono la preservazione e la cura del patrimonio esistente, da rafforzare semmai attraverso l’integrazione delle attività produttive tradizionali con nuove strategie di valorizzazione agrituristica del territorio, affinché si conservino le valenze territoriali e promuovano lo sviluppo con strategie moderne e compatibili ma nel solco della tradizione.

L’indirizzo zootecnico sembra essere oggi l’unico a garantire continuità all’economia agricola montana, figlia di una tradizione che risale addirittura alle popolazioni liguri, antesignane colonizzatrici del territorio, e che si è perpetuato nel tempo attraverso realtà complesse ed articolate sino a sfociare simbolicamente nelle odierne annuali rassegne zootecniche. Per nulla trascurabile è anche il ruolo didattico e formativo che può rivestire una offerta “diversificata” degli alpeggi.

I pascoli, però, rappresentano solo una frazione delle vaste praterie che[17] coronano le montagne del Lago di Como, risultato dell’azione di deforestazione operata per la pastorizia ma non soltanto.

 

Le miniere di Ferro

La vegetazione pone in chiaro risalto come il limite della vegetazione arborea si assesti ovunque al di sotto della sua quota naturale. Le ragioni di tale fenomeno trovano posto principalmente in vicende storiche legate allo sfruttamento delle miniere di ferro. Tale pratica, già in uso presso i Romani, ha rappresentato per secoli l’aspetto maggiormente caratterizzante le dinamiche di utilizzo delle risorse naturali lariane, soprattutto nel lecchese. Dal medioevo in poi, ma soprattutto tra il 1500 e il 1750, si realizzò infatti l'"olocausto" della foresta lariana. Il territorio era rinomato già in epoca preromana per la ricchezza di minerali, soprattutto ferrosi. La presenza di tracce di manganese si dimostrò circostanza utile al fine di ricavare acciai pregiati, in quanto particolarmente resistenti all'abrasione. Purtroppo la siderite pura conteneva solo il 48% di ferro, sicché essa dovette essere arricchita "arrostendo" il materiale entro appositi forni a cumulo, costituiti da ammassi di minerali e di carbone, utilizzato quale combustibile. Da ciò nacque l’esigenza di disporre di un’elevata quantità di legna con la quale produrre il carbone, attraverso un lento processo di combustione in assenza di ossigeno. A testimoniare tale pratica restano oggi le ajal, piazzole sparse nei boschi ove venivano installate le carbonaie o pojatt. La richiesta di ferro espressa dal mercato raggiunse il suo apice con l’affermarsi della Rivoluzione Industriale, con esiti disastrosi sotto il profilo ambientale.

Poiché la gran parte delle miniere si collocava in ambiente alto-alpino, oltre i 2000 m, ne fecero le spese i boschi ad esse più vicini, quelli subalpini, che lasciarono spazio alle praterie arretrando inesorabilmente verso il basso. Non trattata con il dovuto rispetto, la natura non tardò a reagire: i dissesti idrogeologici subirono un forte incremento, che lasciò indelebili tracce sulla morfologia del territorio. L’epopea sin qui descritta ha seminato dietro sè svariati indizi: l’abbassamento della vegetazione (oggi in via di cicatrizzazione), le gallerie scavate nella roccia, gli accumuli di pietre, le ajal, i resti dei forni, le opere idrauliche, testimonianze generalmente dislocate lungo alcuni percorsi che trasudano di storia, oggi potenzialmente in grado di rappresentare importanti “volani” per un turismo alternativo, sostenibile dall’ambiente e di elevata qualità. Certo non si può trascurare l’impatto paesaggistico ed ambientale prodotto dalle attività di cava, oggi più limitate che in passato e soggette a restrittive verifiche di compatibilità.

 


[1] Sede: Via Stoppani, 11- Castelnuovo Bozzente; tel. 031988430

[2] Sede: Via Padre Calvi, 3 – Trezzo sull’Adda; tel. 029091229

[3] Sede: Via Vittorio Veneto, 15 – Triuggio; tel. 0362970961

[4] Sede: Comunità Montana Triangolo Lariano, Canzo; tel. 031615234
 
[5] Sede: Consorzio Lago di Montorfano, Montorfano; tel. 031553310
 
[6] Sede: Consorzio di gestione del Parco Naturale della Valle del Lambro, Via Indipendenza – Triuggio; tel. 0362970961 

[7] Sede: Comunità Montana Alpi Lepontine Meridionali, Via Cuccio, 8 – Porlezza; tel. 034462427

[8] Sede: Azienda Regionale delle Foreste – Milano; tel. 0229529840

[9] All’interno della grotta si apre uno spazio detto Banco dell’orso, un deposito calcareo, in cui si sono rinvenute ossa d’orso risalenti all’ultima fase della glaciazione.

[10]  Si tratta di un dracma d’argento (V sec. a.C.), unica moneta etrusca finora scoperta a nord degli Appennini.

[11] La Como protostorica sorgeva lungo le pendici del Monte Croce e sulle colline della Spina Verde.

[12] Una tradizione letteraria  attesterebbe a Lenno la villa Comoedia di Plinio il Giovane.

[13] Le tombe più ricche avevano raffinati corredi con contenitori in vetro e gioielli. Particolare è la sepoltura di una giovane donna, deposta con una laminetta d’oro sul petto, sulla quale sono incisi simboli riferiti a divinità orientali.

[14] Nel medioevo al traffico di merci si aggiunse quello dei pellegrini diretti alle mete sante.

[15] Di culti pagani di età romana ci raccontano le lapidi di Lenno e Menaggio a cui si affiancano tombe cristiane. Di un certo interesse è l’epigrafe, ora conservata al Museo Archeologico di Como, in cui si attestata la presenza di un tempio dedicato al Dio Sole Mitra, il cui culto fiorì dal 140 d.C. al 312 quando il Cristianesimo divenne la religione ufficiale dell’Impero. I cristiani stessi dovettero fissare il 25 dicembre la loro più importante festa religiosa in corrispondenza al giorno della più grande celebrazione annuale del Dio Solare, dimostrando l’enorme diffusione raggiunta da questo culto probabilmente assimilato a culti indigeni più antichi.

 

 

 

 

 
 

 


[i][i] Temendo una possibile offensiva della Germania attraverso la neutrale Svizzera allo scopo di aggirare l’esercito italiano schierato a est, nel 1915 il generale Luigi Cadorna, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, diede ordine di realizzare una linea di difesa lungo il confine italo-svizzero, quella che in seguito sarebbe stata chiamata Occupazione Avanzata Frontiera Nord (O.A.F.N.), mai armata e utilizzata. Dal 1916 al 1917 furono costruiti dal Passo del Gran San Bernardo fino al bacino del Lago di Como (gruppo Calbiga-Tremezzo) e da qui fino al Pizzo del Diavolo nelle Orobie attraverso il Monte Legnoncino e il Pizzo dei Tre Signori, 72 chilometri di trinceramenti, 88 appostamenti per batterie di cui 11 in caverna, 296 chilometri di strade camionabili e 398 chilometri di carrarecce e mulattiere articolate nei seguenti settori: Sempione/Toce, Verbano/Ceresio, Ceresio/Lario, Mera/Adda.

 

[ii] Le industrie litiche del Buco del Piombo e del monte Cornizzolo si rifanno rispettivamente al periodo Paleolitico e Mesolitico. Gli strumenti reperiti sono numericamente scarsi e ciò rende molto difficile l’inquadramento culturale dell’industria stessa. Schegge, lame e rari strumenti che documentano l’utilizzazione della selce locale.

 

[iii] La seta venne introdotta nel territorio comasco, secondo la tradizione, nel 1510 ad opera del frate umiliato Daniele o del bellanese Pietro Boldoni, il quale avrebbe condotto a Como tessitori vicentini per istruire le maestranze locali. Più probabilmente, l’avvio della manifattura serica cittadina va posticipata di qualche decennio, fino al 1554, quando Battista Maggi si fece promotore presso il Consiglio municipale di una sovvenzione a Pagano Merino, che avrebbe appunto portato in città la seta. Già nel secolo precedente, comunque, la manifattura serica era fiorente in molte zone della Lombardia, grazie al diretto interessamento dei duchi di Milano, così che anche nel territorio lariano si era grandemente diffusa la coltivazione dei gelsi, pianta le cui foglie sono essenziali per l’alimentazione dei bachi. Per tutto il Cinquecento e il Seicento la produzione serica mantenne un ruolo marginale nell’economia locale, limitata quasi esclusivamente alle prime fasi di lavorazione, quelle più strettamente legate all’agricoltura. La tessitura era infatti praticata quasi esclusivamente come attività domestica, con poche possibilità di sviluppo commerciale. Nel Settecento, nonostante il sopravvivere di un sistema produttivo ancorato ai vecchi modelli delle manifatture domestiche, emersero i primi esponenti (come Pietro Bonanomi) di un ceto imprenditoriale più dinamico e attivo; si misero così le basi per la fioritura del XIX secolo, che in primo tempo coinvolse soprattutto l’area lecchese e le fasi della trattura e torcitura (filande e filatoi). Dopo la metà del secolo, Co­mo e il territorio limitrofo conobbero un notevole sviluppo nei settori della tessitura e della tintoria: la città divenne un importante polo industriale, fino a saturare di opifici e fabbriche tutti i terreni liberi tra il centro storico e le colline. La definitiva affermazione dei telai meccanici tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo ampliò ulteriormente il mercato dei tessuti comaschi, anche se in un primo tempo le aziende locali si rivolsero soprattutto alle fasce di prodotti economici; solo in un secondo momento la città si affermò come leader nella produzione della seta più raffinata, tessuta e stampata.

Toponomastica.

 

La presenza delle popolazioni che si sono succedute nel territorio comasco nell’antichità è testimoniata anche dalla toponomastica. Le tracce degli antichi insediamenti sono riscontrabili in molti nomi di paesi e città attuali e spesso, attraverso la tradizione orale, di generazione in generazione, sono state mantenute le diciture più vicine alle primitive.

Alle popolazioni di stirpe ligure che si suppone  abitassero il comasco prima dell’arrivo dei Celti golasecchiani viene fatta risalire l’origine del suffisso –asco/-asca, che indicava le zone di pascolo di proprietà comune: Arcellasco (Erba), Bernaschi o Barnasci (nome medievale di Barni), Gallasco e Limontasca (Bellagio), Olgiasca (Piona) e Rovasco (Nesso) oltre che nelle forma originale del nome di Asso, riportato in un’iscrizione come Asc. Dalla radice proto-celta bar / per, che indicherebbe una altura probabilmente con villaggio di pastori, derivano Baradello; dal celta ol, ser e our/var, che significano “sorgente d’acqua”, come bor, “sorgente”,  probabilmente presente in Brunate e Porlezza; derivano probabilmente Alserio, Serenza, Aureggio. Anche i nomi che iniziano per Alb- (Albavilla, Albese, Albiate, Albiolo, Albogasio) vengono ricondotti a un’antica radice indicante un’altopiano (come l’originale nome della Scozia: alba). Lo stesso vale per i nomi  che contengono la radice  pala- (Palanzo, Palanzone) che significava “roccia, pietra” o “tomba”. La presenza celtica è inoltre attestata dalla diffusione di toponimi in cui è presente la radice bel-/bal-, “abitazione”, come Bellagio. Dalla voce celtica grava, “area ghiaiosa”, deriva probabilmente il nome di Gravedona in cui è presente anche la radice dun, che indica un “villaggio fortificato”, riscontrabile anche in Dongo. Dal celtico brig, “colle” deriva il nome di Brianza; da mag, “villaggio agricolo”, Mazzonio (nel comune di Ponte Lambro) e Mazzonico (presso Gravedona); da gaul, “straniero”, da cui probabilmente trae origine il nome Galli, con cui i Romani definivano i Celti, derivano Gallio e Gallivaggio e il suffisso di luoghi come Portegallo e Busnigallo. Anche l’origine del nome di Como risale probabilmente alle radici kei o koimo, che indicano l’idea delle “abitazioni” e del “villaggio”. Sempre all’ambito celtico i nomi che contengono la radice uigg, “acqua” come Aureggio e Meneggio; in quest’ultimo toponimo è presente anche la radice men, “monte”. L’occupazione romana che ha generalmente mantenuto molti toponimi gallici, ha lasciato alcune tracce nei nomi che presentano i suffissi –ano (Anzano, Appiano, Galliano, Parzano, Pusiano, Sormano, Tivano, ecc.), e –ogno/-onio (Vendrogno, Mazzonio) oltre che nei toponimi come Canzo, Caglio, Castelmarte Ossuccio, Stazzona, Tavernerio. All’epoca longobarda risalgono le origini di alcuni nomi come Gaggio e Gaggianico (da gahagi, “bosco recintato da siepi”), Romanò (da castrum arimannorum, “accampamento degli arimanni”, latinizzazione di hermann, guerriero), Scaldasole (da skuldhaizo, “capo di un distretto militare”), Scarenna (che deriva probabilmente da Scario, “funzionario”) e i numerosi toponimi che presentano il termine Sala, che nella lingua longobarda indicava il “deposito dei cereali”. Da questa voce deriva probabilmente anche il toponimo Saruggia, presso Albavilla.

Tradizioni e identità locali.

 

Un lavoro diffusissimo fino a pochi anni fa in tutta l’area della Val Cavargna era quello del Magnan, lavoratore ambulante che ripara oggetti di rame o di altri metalli che possono essere stagnati. Il rungin era il gergo parlato dai magnani, sia sul lavoro che in famiglia, e dai valligiani che praticavano il contrabbando. L’Alto Lago si caratterizza per la masun, antica forma di costruzione, per il domasino, tipico vino della zona, ma non meno per la moncecca, il tradizionale abito che testimonia l’emigrazione, sin dal 1500, delle Tre Pievi (Gravedona, Dongo, Sorico)  a Palermo. La tradizione vuole che durante la peste del 1500 le donne pievesi abbiano fatto voto di vestire, se salvate dal contagio, l’abito delle pinzochere palermitane devote alla santa. Da ciò il caratteristico costume che le donne della montagna indossarono fino al Novecento e che per la sua somiglianza con le tonache francescane donò loro il nome di frate (sing. frata) accanto a quelli più antichi di mondunghe (monte di Dongo?) e di moncecche (Francesco in dialetto è detto anche Cecc; moncecche potrebbe derivare anche dal richiamo all’abito francescano localizzato nei monti dell’Alto Lario). Andava, invece, scomparendo nell’uso all’inizio del Novecento la raggera resa celebre da Alessandro Manzoni ne I promessi sposi, indossata dalla figura di Lucia, un tempo ornamento tipico portato dalle donne nei giorni di festa sia sul Lario che in Brianza. Il centro lago è una delle rotte delle strade del contrabbando che hanno lasciato un'impronta indelebile sulle popolazioni e sull'immagine della sponda occidentale del Lario; inoltre i paesi affacciati sulle sponde del lago si sono nel tempo caratterizzate per la pesca e la produzione di barche. Della Valle Intevi è la lavorazione del latte, tipica fin dopo la seconda guerra mondiale di numerose vallate del territorio comasco. Ancora alla fine dell’Ottocento nel Canturino, come altrove in Brianza la miseria era di tutti i giorni e per sopravvivere i contadini si adattarono a qualsiasi lavoro: gli uomini impararono a far chiodi, le donne a lavorare al tombolo. Qualcun altro s’improvvisò legnaiuolo nella stagione morta. Quest’ultima attività che è certamente all’origine dell’artigianato del mobile, è documentabile solo nella seconda metà dell’Ottocento. Della Valassina/Alta Brianza è invece la figura del muleta, l’arrotino. Fare forbici e coltelli è stata un’attività molto diffusa nella Valle di Asso, a Canzo e nel Pian d’Erba fino agli anni Settanta, Ottanta del Novecento. Ora le botteghe artigianali e le ditte sono molto diminuite, ma testimoniano ancora un’attività che aveva in questa zona uno dei suoi centri più tipici. Una recente interpretazione[iii] inoltre, attribuisce l’invenzione della polenta alle zone dell’Olgiatese e ai mugnai comaschi in quanto da un atto notarile comasco del 1511, che richiama un contratto di locazione del 1508, il mais già compare tra i beni in natura richiesti dal locatario Gian Antonio Riva al contadino fittavolo Stefano da Garzeno, abitante a Ronago, per il pagamento dell’affitto di terreni in quel comune. E soprattutto era chiamato frumento carlone, già trent’anni prima che nascesse san Carlo Borromeo. Perciò l’etimologia del nome dialettale carlùn usato per indicare il granoturco in una circoscritta area centro-occidentale lombarda può essere ricercata nell’antico tedesco karl, un aggettivo che significa «grosso», tant’è vero che laddove non lo si è adottato per qualificare il «frumento grosso», esso ha trovato un corrispondente surrogato nell’accrescitivo di frumento o meliga: formentòn o melgòn. La localizzazione dei magazzini dei Riva, a Ronago e nella valle di Chiasso Maggiore (Val Faloppia), suggerisce una spiegazione che indirizza anche ad ipotizzare da quale via può essere arrivato il nuovo prodotto: infatti a Chiasso, nei secoli XV-XVI, si faceva una fiera di cavalli, portati da mercanti tedeschi e non pare assurdo immaginare che i mugnai di Chiasso Maggiore recandosi alla vicina fiera abbiano visto per la prima volta il granoturco in mano a un tedesco, che dava delle pannocchie come merenda alle bestie; il frumento karl,poi chiamato Frumento carlone, poi solamente carlone o meglio carlùn, venne seminato per la prima volta sui campi di quella valle.Oltre che darlo alle bestie venne macinato alla nostra maniera e cotto come già si usava con la semola. Forse lo avevano imparato dai mercanti spagnoli o tedeschi, forse fu un esperimento autonomo. E la polenta nostrana fu inventata una volta per tutte. La diffusione della coltivazione del carlùn può essere poi ricondotta ai cavallanti che andavano da Lugano a Milano, e talora fino a Pavia, seguendo la carrareccia lungo la Lura.

Feste e ricorrenze.

 

Del centro lago è la festa di San Giovanni a fine giugno, la più grande festa del Lago di Como. In un documento a stampa del 1683 conservato nell’archivio della Pieve di Isola, si ricorda come dopo il Mille, Isola si alleò con Milano contro Como, distrutta Como dai Milanesi, quando la città lariana risorse per volere del Barbarossa che lì pose la sua base ricostruendone le mura e innalzando il Castel Baradello, i comaschi, per vendetta, misero a ferro e fuoco le fortificazioni, le case e persino le chiese di Isola scacciandone gli abitanti che ripararono sulla sponda opposta nel borgo di Varenna. Da allora Isola non fu più abitata e il tempo cancellò il ricordo del passato. Nel 1435 un pellegrino di passaggio chiese a un uomo di Campo di scavare sotto le radici di un noce in località Castello di Isola dove avrebbe trovato i resti di un tempio ed un altare dedicato a San Giovanni al quale, nel giorno della nascita del santo, sarebbero dovuti venire ogni anno a celebrare la messa affinché il territorio venisse risparmiato dalle tempeste. Qui termina la leggenda.

Dal 1800 si volle accompagnare alla manifestazione religiosa la rievocazione della distruzione dell’Isola e alla sera precedente la festività, si fecero galleggiare sull’acqua delle “Zoca de l’oli”( fuochi accesi in zucche svuotate). 

Se guardiamo alla Valle Intelvi, Il carnevale di Schignano è giunto a noi dalla notte dei tempi. Il tempo di Carnevale cominciava con il giorno di Sant’Antonio, ma lo si festeggiava soprattutto negli ultimi tre giorni, dalla domenica al martedì grasso nel territorio posto sotto la diocesi di Como, e dal martedì al sabato in quello ambrosiano. A Barni e in alcuni paese della Valassina la sera del venerdì grasso i giovani giravano per le case con il volto tinto di nero e camuffati, raccogliendo farina per poi fare sulla piazza la festa di magnan, mangiando la polenta che veniva preparata e distribuita ai presenti. A Canzo, si ricorda la festa di murné, perché i giovanotti col viso infarinato e ornati con rami di lauro rincorrevano le ragazze per cospargerle di crusca, beffando quelle con qualche anno in più perché fà crusca significa “restar zitelle”. In molti anziani della Vallassina, ma non soltanto, è ancora vivo il ricordo delle zucche scavate il 31 ottobre, la loro collocazione su davanzali di finestre o muretti e l’esatta collocazione del rito durante l’arco della giornata. Le zucche sono spesso utilizzate per fare scherzi a persone o collocate negli angoli più bui, questo rituale si ricollega con la festa celta di Samain, quando il mondo dell’oltre tomba e quello dei vivi si uniscono nella notte precedente il primo Novembre ( da qui deriva la festività cristianizzata dei defunti). La tradizione del rapporto con il mondo dei morti non è estranea alla cultura lariana e si manifesta anche con l’usanza delle cene apparecchiate per i morti, con le offerte di castagne e della scodella di latte lasciate sul davanzale o sul tavolo per gli spiriti defunti. Di questa festa gli Òss da mort (biscotti di pasta molto dura, da mordere, con assonanza a ossa dei morti perché si confezionano il 2 novembre) e il Pan di mòrti a forma navicolare (forse a ricordare la barca funebre con cui i popoli germanici a volte seppellivano i loro capi) con pinoli aromi e cioccolato.

Dell’ Erbese, invece, è la fiera da sant’Antoni, il 17 gennaio. Oggi ridotta a semplice mercato, fino a pochi anni fa grande festa con fiera agricola di sementi e di animali sin dalle prime luci del mattino.

Trascorse le feste natalizie e anche la ricorrenza di sant’Antonio il periodo che seguiva, sino alla Quaresima, era tempo di Carnevale. Si uccideva il maiale cresciuto nella stalla, ci si preparava alla fine dell’inverno per riprendere i lavori nei campi festeggiando, a fine gennaio, il Ginée (o Giner, gennaio). In vari luoghi si celebrava la Giubiana (da giobia, giovedì) l’ultimo giovedì di gennaio. In quel giorno grandi e piccini giravano per le vie del paese picchiando rumorosamente oggetti metallici. Alla sera venivano accesi falò nelle piazze e nei campi attorno all’abitato, allo scopo di cacciare spiriti malvagi ritenuti dannosi per le prossime coltivazioni. In Brianza, la Giubiana finì col diventare un fantoccio femminile bruciato su una catasta di legna. La tradizione del giorno della Giubiana, che cadeva nei  dì de la merla (giorni della merla, che la tradizione vuole i più freddi dell’anno), andò perdendosi nei territori comaschi alla fine dell’Ottocento, anche se è sopravvissuta in località brianzole quali Cantù, Albavilla, Guanzate, Canzo. E’ rimasta invece più a lungo la tradizione di festeggiare l’ultimo di gennaio, la <<cacciata di gennaio>> soprattutto da parte dei ragazzi: in molti paesi si costruivano uno o due fantocci imbottiti di paglia, il giner e la ginera, portandoli in giro per le vie dell’abitato e infine bruciandoli sulla piazza. Il rogo del ginée era comune a molti luoghi, soprattutto dove l’inverno era più lungo. All’epoca delle prime diligenze, a Barni, si portava una vecchia valigia sulla piazza per salutare la partenza di gennaio con la carrozza. Nell’ultimo giorno di gennaio il pasto era più sostanzioso: in molte case a Barni si mangiava la panna con le castagne.

Tradizionale di Como, è la Fiera del giovedì santo con la Processione del SS. Crocifisso che dal 1529, ogni anno, porta per le vie cittadine il famoso Crocifisso del '300 conservato nell'omonimo Santuario.

        Spettacoli e altre manifestazioni.

 

Fra le molte manifestazioni ricorrenti annualmente sul territorio comasco il Carnevale canturino e comasco hanno “coniato” la figura di Truciolo e quella di Tavà. Il Tavà, “maschera” della città di Como e dei paesi di Terra Comasca è un personaggio realmente vissuto nella prima metà del Novecento a Como. Vestito da marinaio, stadera d’ottone e fiasco di barbera in mano, dalle imprevedibili e sottili trovate, sciocco o furbo a secondo delle circostanze, se qualche volta commette qualche geniale marachella lo racconta, per divertire gli altri. A Lezzeno il 18 marzo (o sabato successivo) si svolge  il Palio dei falò: lo spettacolo crea suggestivi effetti di luce sulle rive del lago, dove si piantano pali alti 20 metri che vengono accesi la sera. Di luglio la Sagra di S. Anna  di Albiolo, la Festa di S.Lucio di Cavargna, la Regatalonga del Lario di Lezzeno. Ad agosto, ad Alserio si svolge la rievocazione storica della Battaglia di Tassera; a fine agosto a Como, la Fiera di Sant'Abbondio. Da fine agosto a metà settembre, Como e dintorni ospitano la fiera del libroParolaio e il  torneo medioevale Palio del Baradello. A metà agosto, a Gravedona, con la Festa di mezz’agosto,  si assiste a uno spettacolo pirotecnico e alla sfilata di barche illuminate. Stazzona ospita, per tutto il mese di agosto, la Sagra dei Crotti, festa gastronomica con degustazione delle specialità locali. Di settembre è il Raduno di moto d’epoca con rievocazione del giro motociclistico del Lario di Asso, la Mostra Miniartexil(sculture, quadri ed oggettistica con materiale tessile) diComo e la Sagra del missoltino di Mezzegra. A Noverate, la 1° e 2° domenica di settembre si tiene la Mostra Internazionale del Pizzo. A Ossuccio, il Palio remiero del Lario, caratteristica regata delle "Lucie", tipiche imbarcazioni del Lago di Como che si svolge per festeggiare S.Abbondio. Nel mese di ottobre, Asso ospita la Festa del cavallo, Bellagiola Mostra Internazionale Canina. Ad Erba si svolge la festa delMasigott. Durante l’anno sono numerose le manifestazioni a Como e Cernobbio inerenti la mostra di tessuti per l'abbigliamento e l’arredamento e le esposizioni inerenti i più diversi settori delle attività produttive che si svolgono presso i poli fieristici di Erba (Lariofiere) e Cernobbio (Villa Erba).

Fiabe e leggende.

Se guardiamo alla Val Cavargna, la leggenda ci parla dei Bragula e dei Pelus de Kongau,  folletti difficilmente distinguibili tra loro se non da un occhio molto allenato: piccoli di statura, occhi vivissimi e scintillanti come brace, grande naso, braccia robuste e il corpo interamente ricoperto di pelo. Dal carattere allegrone, ma mutevole e imprevedibile, il loro divertimento preferito è quello di spaventare i viandanti che attraversano i boschi attraverso urla tremende che nella valle si chiamano sbragande, e poi arrotolati come palle si lanciano lungo i pendii all’inseguimento del malcapitato. Uno dei punti più frequenti dove è possibile incontrarli è la zona di Ponte Dovia.

Canti popolari

 

La conoscenza della tradizione musicale orale del territorio comasco poggia sul materiale assai esiguo trasmessoci dalle raccolte del passato e dai risultati di ricerche più recenti in gran parte realizzate o direttamente o con il contributo della Regione Lombardia (Servizio per la cultura del mondo popolare). Per quanto riguarda le fonti bibliografiche non si può contare che sulla vecchia e poco attendibile raccolta di Ricordi-Pullè (Canzoni popolari comasche, 1857 / sei canti, con accompagnamento di pianoforte); il lavoro più attento, ma molto localizzato e con solo quattro melodie di Giovanni Battista Bolza (Canzoni popolari comasche, in <<Sitzungsberichte der Philosophisch-Historischen Classe der Kaiserlichen Akademie der Wissenschften>>, LIII Band, 1866, Wien, 1867); la raccolta di Maria Adelaide Spreafico, dedicata alla Brianza e quindi in parte interessata anche al territorio comasco (Canti popolari di Brianza, Varese, 1959; un capitolo delle Osservazioni sui canti religiosi non liturgici, di  Roberto Leydi e Annabella Rossi (Milano, 1965). Canti raccolti in territorio comasco sono anche pubblicati in Cultura tradizionale in Lombardia, a cura di Roberto Leydi (Regione Lombardia, QDR 5/6, 1972), in R. Leydi, I canti popolari italiani (Milano, 1973) e in Mondo popolare in Lombardia. Como e il suo territorio, a cura di Roberto Leydi e Glauco Sanga. Presumibilmente da ascrivere alla Brianza comasca sono i canti pubblicati con musica in Bollini e Frescura, I canti della filanda, Milano, Carisch, 1940. anche in disco sono pochi i documenti comaschi (registrazioni originali) finora pubblicati (23 brani sono pubblicati nel disco corrispondente al volume Como e il suo territorio - Albatros VPA 8299 RL). Ne risulta una documentazione abbastanza consistente per la riva occidentale del lago, la montagna retrostante a questa riva. Meno documentato il cosiddetto Triangolo lariano e la zona occidentale della pianura e della collina. In termini generali, sulla base dei documenti disponibili, si può dire che le modalità tradizionali del territorio com’asco si collocano nei modelli già noti per l’intera Lombardia, con una regione montana che partecipa alla cultura musicale alpina e una regione di collina e alta pianura che s’innesta sull’Alto Milanese

Lingue e dialetti. Filastrocche e proverbi.

 

E’ recentemente stato istituitol’Istituto comense per il dialetto e le tradizioni, con sede a Comoin via Borgo Vico 148 che accanto alle associazioni che operano sul territorio nel settore dello studio dei dialetti locali (Famiglia Comasca di Como) e con la collaborazione di rappresentati degli Istituti di ricerca valtellinese e ticinese ha dato maggior forza alla necessità di costruire un progetto per il recupero e la salvaguardia delle parlate locali volto alla conservazione delle tradizioni linguistiche locali. I percorsi di ricerca verranno compiuti attraverso la raccolta di testi scritti e documenti archivistici, attraverso interviste, registrazioni, filmati e censimenti, orientati da criteri tematici e topografici, intesi a raccogliere, classificare e conservare la testimonianza attuale di una lingua che si modifica e il cui uso è in gran parte “sommerso”. Tra gli obiettivi la produzione di piccole pubblicazioni tematiche, tappe intermedie per la stesura di un dizionario esaustivo; classificazione del materiale documentario in cataloghi; stesura di una bibliografia completa della produzione letteraria e critica dialettale, nonché degli studi sulle parlate locali, che possa costituire un riferimento di base per studi e ricerche; censimento di associazioni, filodrammatiche  e soggetti diversi che promuovono lo studio dei dialetti; apertura di collaborazioni con gli istituti universitari di linguistica per promuovere studi, ricerche, lavori di tesi sul territorio; divulgazione nelle scuole, che divengono soggetti ricercatori; organizzazione di momenti seminariali e convegnistici che diano conto delle fasi della ricerca e affrontino le problematiche connesse. Per favorire il rapporto e lo scambio con il territorio, con le associazioni, le scuole e i singoli studiosi e cittadini è in progetto anche l’apertura di un sito internet, che raccolga e fornisca informazioni aggiornate.

 

 

 

 

Giochi e passatempi.

 

Un tempo il gioco era inteso in maniera anche molto diversa da come lo si può intendere oggi. Pochi erano i giocattoli a disposizione dalla maggior parte dei bambini dei nostri paesi, il più delle volte costruiti in casa o di fattura artigianale. Si giocava in compagnia, nelle corti o sulla piazza, ma il tempo maggiore anche di un bambino era dedicato all’aiuto nei lavori di casa o della stalla e dei campi.

Il testo Triangolo lariano, edito dalla Comunità Montana del Triangolo lariano del1980, ricorda per esempio giochi con noccioli di frutta (<<Gina giana marcia in tana>>) e con cocci delle ciotole finite in frantumi (<<I ciapitt o ciapéi>>); <<Al mond>> (disegnato con gesso o carbone su un lastricato), <<I cicch>> (biglie di terracotta colorata), <<Ol birlo>> (una trottola), <<Ol saltamartin>> (con mezzo guscio di noce forato), <<Ol s’ciopett>> (con un cannello di sambuco), <<La passerella>> (con due bastoncelli), <<I scanc o stampèi>> (sorta di trampoli), <<La cursa di cerc>> (con cerchioni smessi di bicicletta), <<La corda>>, <<Pan brusca>>, <<Fa a didìna>>, <<La vegia tuntuna>>. Il testo Como si divertiva così, edito nel 1989 dalla famiglia comasca raccoglie poi feste, giochi e passatempi tra Settecento e Novecento, sul filo dei ricordi e dell’indagine storica.

 

 

Gastronomia

 

La cucina comasca è un compendio di realtà locali e ha radici antiche nella cultura e nella tradizione lariana. Una cucina modesta, fatta di poche ed essenziali cose, piatti nati dal bisogno del quotidiano che hanno fatto giungere sino a noi l’essenza del mangiare comasco. Una ricostruzione ideale e storica del secolo scorso mostra i territori comaschi in gran parte agricoli. Si viveva di agricoltura montana – per sua natura povera -, di sfruttamento dei boschi, di caccia, di piccolo artigianato, di qualche attività turistica. Sulle rive dei laghi si viveva di pesca. Il tutto con redditi scarsi basati sull’autosufficienza e sulla circolazione locale dei prodotti. E legate proprio alla terra e ai suoi prodotti, è possibile rintracciare ancora oggi - sul territorio - almeno tre culture alimentari ben caratterizzate, più distanti nella pentola che non sulla carta geografica: quella del lago, che ha come protagonista il pesce, quella delle Valli, incentrata sulla polenta e quella della Brianza, caratterizzata da robusti piatti a base di carne. I problemi del cibo saranno risolti anche per la popolazione lariana soltanto dopo la prima guerra mondiale. E i documenti e il ricordo sono quelli di un mangiar povero, un tempo fatto di magra polenta, di acido pane di granoturco (pangiallo), di minestra di verdura o di riso. Una miseria data anche dai contratti che regolavano i rapporti tra il contadino e il “padrone”. Si cumpesava (si mangiava con parsimonia) e tra i piatti che la tradizione ha fatto giungere sino a noi, la pulenta uncia (o vunscia), il töcc (nella zona di Bellagio), la balota (palla di polenta e formaggio strachino alla brace), la pulenta cunscia (con polenta calda affettata disposta a strati), il pult (polenta molto molle con aggiunta di farina bianca e poco latte), il mazafam (con polenta fredda avanzata, soffritta con cipolla, patate e formagella), i  missoltini (gli agoni tipici del lago che, in epoche passate, essiccati e salati sono serviti come riserva di cibo per l’inverno per interi paesi), il ragell (bevanda preparata nello stesso paiolo del töcc  con vino, chiodi di garofano, cannella, zucchero e grappa secondo il procedimento del vin brulé), la miascia (un dolce di farina gialla e bianca con fichi secchi, noci e uvetta). E poi la zupa de scigulin (zuppa di cipolle), le minestre, ris e lacc (riso e latte), il paradell (o laciada o cutizza o cutiscia), la gallina ripiena lessata, la cassoeula,  il risotto con il pesce persico, il carpione, la büseca, il pan mejìn. Lungo le rive lacustri è ancora presente la produzione di olio. Dell’Alto Lago è il vino domasino (o delle Tre Pievi) e delle colline moreniche da S. Fermo a Bizzarrone è il ricordo del vino di Cavallasca, citato ancora nel 1954 dalla Camera di Commercio di Como in “Vigneti e vini lariani”. A metà Quattrocento, inoltre, il Libro de arte coquinaria che diede nuovo impulso alla gastronomia con criteri “professionali” e segnò il passaggio dalla cucina del Medioevo a quella del Rinascimento, porta la firma di Maestro Martino, della cui vita si hanno poche informazione, ma da sempre indicato come Martino da Como.

Ininerario numero 1. Archeologia industriale nella Valle del Lambro.

Il fenomeno di industrializzazione non ha risparmiato il territorio comasco in cui sono concentrati  i resti di un processo industriale tra i più intensi e precoci di tutta l’area nazionale. L’itinerario qui suggerito esamina una porzione di territorio compreso tra i comuni di Ponte Lambro ed Erba attraversati dal fiume Lambro, lungo il cui corso i paesi di Canzo, Caslino, Asso, conservano tracce antiche di industrializzazione sette-ottocentesca. L’area non è rilevante tanto per la qualità degli edifici sopravvissuti, quanto piuttosto perchè permette di inquadrare le problematiche relative allo studio dell’archeologia industriale come la presenza di edifici riconvertiti ad altre funzioni, di infrastrutture cancellate (canali coperti, strade deviate), e di edifici in totale abbandono documentabili attraverso fonti orali, fotografiche e carte d’archivio. A guidarci in questa rilevazione dell’esistente industriale sarà una derivazione del fiume Lambro, la Roggia Molinara, un canale la cui esistenza è documentata già a partire dal XV secolo e testimoniata dalle tracce di un mulino quattrocentesco, sfruttato come forza idraulica dai mulini per i cereali. Nel 1840 viene eretto il filatoio serico dell’inglese G. Robinson, dal quale ha inizio una grande concentrazione produttiva destinata a subire continue aggiunte edilizie volte ad riconvertirlo in un cotonificio. La struttura è situata a cavallo della Roggia e si presenta munita di edifici a più piani disposti fino a formare una sorte di corte chiusa rettangolare in cui si trovava il filatoio divenuto successivamente il cotonificio di proprietà Ohly, successivamente passato ai Rutschmann. Più a valle  si individua un altro complesso di trattura e filatura della seta appartenuto ai fratelli Zucchi e distrutto durante la guerra, anch’esso attraversato dalla roggia che spartiva in due aree la filanda. Di questo nucleo oggi rimangono gli ambienti del filatoio riconvertiti ad uso abitativo. Le tipologie costruttive si ripetono e sono documentate dalle, se pur scarse, rappresentazioni pittoriche dell’Ottocento che descrivono l’abitato di Ponte Lambro. In località Brusnigallo, a ridosso dell’ex setificio Caldara, sono rintracciabili i lavori di adattamento imposti dalle mutate destinazioni industriali dell’area, che infatti si svilupperà nel settore della cartiere. Il nome della frazione Folla si riferisce ai procedimenti di lavorazione della carta. Si tratta di muri di contenimento, parapetti, vasche di riserva e sistemi di chiusa realizzati negli anni Trenta del XIX secolo. Gli ambienti lavorativi sono volumi semplici quasi privi di decorazione e appartengono alla tipologia degli edifici “contenitori”. Nel territorio di Erba, la Roggia Molinara ritorna libera da parapetti e muri di contenimento, affianca campi e attraversa resti di attività paleoindustriale come la settecentesca casa mulino Nava (documentata nel Catasto Cessato), oggi non totalmente compromessa e destinata ad usi abitativi. Alti mulini in località Arcellasco furono sostituiti da edifici con altre destinazioni. Tra questi, il secondo proseguendo verso sud, negli anni sessanta divenne il filatoio Caldara (oggi ditta di tende avvolgibili) significativo per aver mantenuto nel tempo le fattezze tipiche di un filatoio ottocentesco con pianta a corte, aperture a ritmo serrato e ciminiera. La Roggia poi prosegue il suo corso fino al lago di Pusiano, dove esaurisce il suo tragitto lasciando ancora tracce della ormai decorsa, ma antica funzione produttiva e conservando frammenti della sua storia nella memoria e nell’esistenza di chi in questi luoghi ha lavorato e trascorso gran parte del proprio vissuto.

Itinerario numero 2 .Le ville comasche

 

Legate al fenomeno della villeggiatura, che sul Lago di Co­mo e in Brianza è di antichissima data, già in epoca romana il Lario fu teatro della realizzazione di ville sontuose. Dopo la parentesi del Medioevo, la villeggiatura tornò con il Rinascimento e nella seconda metà del XVI secolo e all’inizio del successivo furono edificate la Pliniana  (Torno), la Gallio (Gravedona), Villa Gallia (Como) e il Balbiano (Ossuccio). Massimo esempio del periodo neoclassico,  è la grandiosa Villa Olmo. Diffusesi poi sul territorio - con le concentrazioni più significative a Blevio, Torno, Cernobbio, Tremezzo (Villa Car­lotta), Bellagio (Villa Melzi è un capolavoro assoluto dell’architettura del periodo) -, numerosi sono gli edifici anche sulle pendici collinari (Erba, Anzano del Parco, Alzate Brianza, Casnate con Bernate, Fino Monrasco). Dopo la seconda metà dell’Ottocento, alle famiglie nobili si sostituirono i rappresentanti della nuova borghesia industriale. Il territorio vide lo sviluppo di nuove infrastrutture e il tardo neoclassicismo cedette il passo all’eclettismo, al revival degli stili storici (primo fra tutti quello medioevale, tra romanico e gotico), al liberty, al Razionalismo. Diverse le dimensioni e le localizzazioni e dai terreni più vicini alle sponde si espansero progressivamente alle pendici dei monti e poi ai paesi vicini, fino a trasformare radicalmente i territori di comuni come Brunate e Lanzo Intelvi. Ma è soprattutto nella quantità di ville e villini (che si aggiunsero ai numerosi alberghi) che il territorio comasco risentì di questa nuova stagione della villeggiatura, preludio al turismo di massa del secondo dopoguerra.

Ville e giardini. Bellagio, GIARDINI DI VILLA SERBELLONI, Via G. Garibaldi 8, Tel 031.950204 (i.a.t. Bellagio); GIARDINI DI VILLA MELZI D’ERYL, Via Melzi D’Eryl,  Tel. 031.950318; Como, VILLA OLMO, Via Cantoni - Tel. 031.252443; Cernobbio, VILLA IL PIZZO, Via Regina - tel. 031.511700 / 02.876139; PARCO VILLA ERBA, Via Regina 2, tel. 031.3491; Lenno, VILLA DEL BALBIANELLO, Loc. Balbianello, tel. 0344.56110 / 02.4676151 - fax 0344.55575; Menaggio, VILLA VIGONI, Tel. 0344. 361232; Tremezzo, VILLA CARLOTTA, Via Regina 2b, Tel. 0344.40405 / 41011.    

Itinerario numero 3. Il Razionalismo comasco.

 

Nei primi decenni del Novecento le nuove tecnologie condussero alla riconsiderazione delle basi del costrui­re. Invece di continuare a ragionare in termini di forma, si comincia a mettere in primo piano la funzione a cui gli oggetti (compresi quelli architettonici) dovevano rispondere. In architettura prese piede il Funziona­li­smo o Razionalismo. A Como, i primi sintomi del rinnovamento del­l’architettura si erano fatti sentire con l’opera di Antonio Sant’Elia (1888-1916), che nell’ambito del Futurismo aveva dato vita ad avveniristiche visioni di città composte di grattacieli e strade a più livelli. Eppure solo negli anni dopo la prima guerra mondiale, un gruppo di giovani architetti e ingegneri formatisi nelle università milanesi  cominciò a inserire nella pratica professionale elementi ispirati alle più aggiornate esperienze straniere. Di Giuseppe Terragni fu la prima opera ostentata­mente razionalista della città: il Novocomum, grande edificio che all’epoca suscitò pesanti polemiche e rischiò persino di essere demolito. Suoi sono la Casa del Fascio e l’Asilo Sant’Elia, entrambi a Como. Intorno a lui crebbe un gruppo di cui fecero parte non solo architetti e ingegneri - Pietro Lingeri, Gianni Mantero, Gabriele Giussani, Mario Cereghini, Adolfo Dell’Acqua, Oscar Ortelli, Cesare Catta­neo -, ma anche pittori e scultori di matrice astratta - Mario Radice, Manlio, Aldo Galli, Carla Badiali e Carla Prina.

Alcune costruzioni sono nelle seguenti località: Como (viale Rosselli, viale Puecher, Monumento ai Caduti, via Sinigaglia, via Pessina, via Mentana, via Anzani, Camerlata, via Paoli, Canottieri Lario)., Cernobbio, Ossuccio, Isola Comacina, Lenno,  Tremezzo, Fino Mornasco, Cermenate, Figino Serenza, Albavilla, Erba, Lecco.

Itinerario numero 4 . Il Romanico comasco

 

E’ una variante regionale del Romanico europeo e si caratterizza dall’uso della pietra come materiale costruttivo (a volte ciottoli di fiume, più spesso pietra locale estratta dalle numerose cave del territorio), che lo differenzia fortemente dalle aree di pianura (dove è prevalente il mattone); ciò comportò una semplificazione delle strutture di copertura (nella maggior parte dei casi gli edifici lariani sono coperti da semplici tetti in legno e non da volte) e anche delle decorazioni scultoree (la pietra locale risulta piuttosto difficile da scolpire). Fra le opere: edifici ecclesiastici urbani (S. Abbondio, S. Fedele, S. Carpoforo a Como), piccole chiese del territorio rurale e montano (SS. Filippo e Giacomo di Quarcino, S. Giacomo di Spurano, S. Alessandro di Lasni­go, SS. Quitico e Giuditta di Cerano, S. Margherita di Somadino), complessi pievani con gli edifici battesimali (Galliano, Erba, Gravedona, Lenno), abbazie (Civate, Vertemate, S. Benedetto in Valperlana, Piona) e perfino qualche rarissimo esempio di architettura civile fortificata (Porta Torre a Como). Un itinerario allo scoperta del Romanico comasco è in grado di restituire anche al pubblico dei non specialisti un’immagine articolata e non convenzionale del periodo medioevale.

Altre costruzioni sono visibili a Como, Isola Comacina, Ossuccio, Lenno, S. Fedelino, Moltrasio, Carate Urio, Lanzo d’Intelvi, Gotto, Porlezza, Menaggio, Cremia, Dongo, Gera Lario, Torno, Faggeto Lario, Pognana, Nesso, Bellagio,  Albese con Cassano, Albavilla,  Rezzago, Barni, Cantù, Vertemate, Mariano Comense, Cargo, Appiano Gentile, Albiolo, Uggiate Trevano.

Itinerario numero 5. Le vie della seta intorno al Lario

 

Introdotta nel territorio comasco, secondo la tradizione, alla fine del XV secolo, nel Settecento emersero i primi esponenti di un ceto imprenditoriale più dinamico e si misero le basi per la fioritura del XIX secolo, che in primo tempo coinvolse soprattutto l’area lecchese e le fasi della trattura e torcitura (filande e filatoi). Dopo la metà del secolo, Co­mo e il territorio limitrofo conobbero un notevole sviluppo nei settori della tessitura e della tintoria e il territorio lariano iniziò a saturarsi di opifici e fabbriche. La definitiva affermazione dei telai meccanici tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo ampliò ulteriormente il mercato dei tessuti comaschi e la città si affermò come leader nella produzione della seta più raffinata, tessuta e stampata.

Le istituzioni. Como: Museo Didattico della Seta (via Valleggio 2); Istituto Tecnico di Setificio (via Castelnuovo); Museo Storico G. Garibaldi  (piazza medaglie d’Oro); Fondazione Antonio Ratti Museo Tessile (lungo Lario Trento 9).  Cassina Rizzardi: Centro di gelsibachicoltura; Abbadia Lariana (LC) :  Museo; Garlate (LC): Museo della Seta.

I luoghi. Disseminati un po’ ovunque sul territorio, filande e complessi serici, qualcuno ancora attivo,  sono presenti a Como (via Castellini e viale Innocenzo XI), Brienno, Lenno, Tramezzo, Carlazzo, Cremia, Pianello, Lasnigo, Asso, Albavilla, Caslino d’Erba, Canzo, Merone, Valbrona.

Itinerario numero 6. Leggere il territorio attraverso le fonti storiografiche.

 

Sono esistite per il comasco figure di storici e studiosi  rilevanti, che si sono occupati di indagare i fatti del loro territorio, anche qualora non da questa terra avevano ricevuto i natali. Lo stimolo proposto da questo percorso suggerisce una prospettiva d’analisi che partendo dalla storia locale giunge a comprendere quella nazionale più ampia e complessa;  poiché si può affermare che non esiste forse un sapere storico universale ma ben sì più prospettive locali di conoscenza.

La presenza di autori come Plinio e Paolo Diacono, che per il comasco riferiscono solo tramite debolissimi tratti, ci permette comunque di individuare brevi testimonianze storiografiche dell’età antica. La stesura di opere che trattino di fatti storici, arriva anche per il comasco, non prima dell’Umanesimo e del Rinascimento conservando ancora le caratteristiche degli annali medioevali; così sarà per il Muralto e per Benedetto Giovio. Solo con Giuseppe Rovelli la storiografia locale si baserà sull’utilizzo moderno delle fonti documentarie.

Plinio (23-79), che la tradizione classica considera uno storico, nel libro III di Naturalis historia (storia naturale) descrive la regione Settentrionale dell’Italia, chiamata Transpadana con le colonie romane alla base delle Alpi e le rispettive fondazioni di città celtiche e romane tra cui si accenna agli Insubri come fondatori di Milano, ne riportiamo un frammento in cui si menziona Como: “Catone attesta che Como e Bergamo e Licini Forum e altri popoli sono della stirpe degli Orumbovii, ma dice di ignorare l’origine di questa popolazione…”[iii]

Paolo Diacono (720 ca-795) con i sei libri dell’ Historia Longobardorum è la fonte principale alto medioevale di cui si dispone a riguardo di usanze tradizioni e fatti relativi al popolo Longobardo. La scrittura del testo è abbastanza sintetica e grande cura è messa, dall’autore, nel citare espedienti, aneddotici curiosi e nel narrare di avvenimenti leggendari e soprannaturali. I personaggi e i luoghi del territorio comasco sono accennati nei capitoli. 38.  Alahis occupa il palazzo di Cunincpert  e 39. Cunincpert entra di nuovo nel suo palazzo (Storia dei Longobardi, Milano 1985,pp. 234-237) che si consiglia vivamente di leggere per lo stile molto colorito e burlesco in cui si descrive il ritorno di Re Cunincpert, dalla fortezza costruita su di un isola in mezzo al Lario non lontano da Como, a Pavia dove si rimpossessa del suo palazzo caduto sotto la tirannia di Alahis.

Francesco Muralto (1440-1535) è ritenuto il primo scrittore di storia comasca degno di nota. Egli fu un nobile comasco che visse sotto gli Sforza per i quali lavorò come funzionario politico. Negli Annalia racconta i fatti avvenuti tra il 1494 e il 1520 riguardanti la lavorazione e la vendita della seta, il passaggio delle milizie tedesche, i fatti meteorologici calamitosi ecc, tutti strettamente legati al territorio comasco.

Ma chi indagò la storia  di Como e dintorni con l’ausilio di fonti documentarie che fossero di sostegno alla verità della narrazione storica fu Benedetto Giovio (1471-1545), fratello di quel più famoso Paolo Giovio. L’opera qui suggerita titolata Historia patriae (scritta in latino come necessitava la tradizione umanistica) si articola in due tomi di cui il primo traccia la storia del comasco dalle origini sino al 1532 mentre il secondo riguarda i monumenti, chiese e conventi, edifici pubblici e personalità più significativi della città e del territorio.

Tra Settecento e Ottocento si affermarono gli storiografi per eccellenza del comasco tutt’oggi fondamentali per chi si occupa di ricerca storica sul territorio,  Giuseppe Rovelli con Storia di Como , pubblicata a cavallo tra i due secoli, e  Cesare Cantù con la Storia della città e della diocesi di Como, molto vicini alla storiografia attuale, per i metodi d’indagine scientifica, che seguirono nel reperimento delle fonti e per lo sforzo di cucire insieme gli eventi ricercandone le cause e gli effetti.

Musei e istituzioni

  1.       Pinacoteche

Como, Pinacoteca, via Diaz, 84, tel. 031.269869

  1.       musei storici

Como, MUSEO ARCHEOLOGICO “P. GIOVIO", p. Medaglie d’Oro 1, tel. 031.271343

Como, MUSEO DEL RISORGIMENTO “G. GARIBALDI”, Piazza Medaglie d’Oro - Tel.031.271343

Como,  TEMPIO VOLTIANO,Viale Marconi - Tel. 031.574705

Como, CASTELLO BARADELLO, Via Castel Baradello - Tel.031.592805

Dongo, MUSEO DELLA RESISTENZA, (c/o Comune) Piazza Baracchini, tel. 0344.82572     

Erba, MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO VILLA S. GIUSEPPE, Via Ugo Foscolo, tel. 031.615262 / 335.7543173;

Erba, MUSEO BUCO DEL PIOMBO,Via Cantù 15, tel. 031.629599 / 338.3053323 

Scaria di Lanzo I., Museo Diocesano di Arte Sacra,  Piazza  SS. Nazzario e Celso, Tel. 031.840241

  1.        musei di storia naturale

Claino con Osteno, GROTTE DI RESCIA, Info Tel. 0344.72520

Como, Museo Naturalistico del Liceo Volta,

Scaria di Lanzo I., Museo dei Fossili dei Monti Intelvesi, Piazza SS. Nazzario e Celso, Tel. 031.840241    

  1.       musei dell’ambiente e dell’artigianato locale

Arosio, Osservatorio Ornitologico, Via Cascina Perego, 1  c/o Il Nibbio, Tel/Fax 031.762162

Bregnano, Museo Apistico, Via Menegardo, Tel. 031.747464

Cantù, Galleria del Design e dell’Arredamento, Piazza Garibaldi 5, Tel. 031.713114;

Cantù, Museo del Legno “RIVA 1920" , via Borgognone 12, Tel. 031.7073353

Casasco I., Museo della Civiltà Contadina, P.V. Veneto, tel. 031.817812

Cassina Rizzardi, Centro di Gelsibachicoltura, Via Monte Grappa 10, Tel 031.880405 / 541335    

Cavargna, Museo della Valle, Via alla Chiesa 12/14, tel. 0344.63261 / 63175

Como, Museo Didattico della Seta, Via Valleggio 3 - Tel. 031.303180    

Como, Museo Tessile “Fondazione Antonio Ratti", L.l.Trento, 9 - Tel. 031.233111

Pianello Lario, Museo della Barca Lariana,

Ponna Intelvi Sup., Museo della Civiltà Contadina “G.Traversa", Via Vittorio Veneto, Tel. 031.303472

  1.        archivi storici

Como, Archivio di stato, via Briantea 8, tel. 031.306368

Como, Archivio notarile distrettuale, via Bossi 8, tel. 031.271485

Como, Archivio Storico Provinciale, Via Borgo Vico 148, tel 031.230 321

Como, Archivio Storico Diocesano,

  1.        università

Como, Università degli Studi dell’Insubria, via Valleggio 11, tel. 031.2389201

  1.       altro

Como, Tempio Sacrario degli Sport Nautici, Via per Brunate - Tel 031.305958

Como, Società Archeologica Comense, p. Medaglie d’Oro 6, tel. 031.269022

Como, Società Storica Comense, presso Villa Gallia, via Borgo Vico 148

Como, Istituto Comense per il Dialetto e le Tradizioni, Via Borgo Vico 148, tel 031.230 321

Grandate, Museo del Cavallo Giocattolo, Via Tornese 10, tel. 031.382912

Magreglio, Tempio Sacrario del Ciclismo, presso Santuario Madonna del Ghisallo

 

 

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