La tradizione vuole che la famiglia faccia un voto e inviti alla propria tavola, benedetta dal sacerdote, componenti di povere famiglie servite dai padroni di casa. In questo modo si dà da mangiare a chi è più bisognoso. Tutto sembra semplice se non fosse che l’allestimento del banchetto richieda un’operosità collettiva profondamente religiosa che ha il sapore di un risveglio dal torpore dell'inverno e che, probabilmente, trova le sue radici in un antico mondo pagano, se si considera che il 19 marzo coincide con l'equinozio di primavera. San Giuseppe, ultimo Patriarca, è l’uomo giusto e fedele che Dio pone a custodia e guida della Sacra Famiglia. È lui l’anello di congiungimento tra Gesù, il Messia, e la discendenza di Davide. Simbolo di umiltà e di dedizione, il suo culto nacque in Occidente, intorno all’anno Mille. I primi a celebrarlo furono i Benedettini nel 1030, che costruirono in Italia la prima chiesa dedicata a san Giuseppe, a Bologna nel 1129. I Benedettini furono seguiti dai Servi di Maria nel 1324 e dai Francescani nel 1399. La festività venne resa obbligatoria per la cristianità nel 1621 da Gregorio VI. La festa di San Giuseppe era una festa molto sentita nel mondo contadino fino a tutta la seconda metà del novecento del ventesimo secolo, basti pensare che fino al 1977 la data figurava tra le festività religiose nazionali come lo è ancora in alcuni cantoni della Svizzera e in alcune province della Spagna, mentre in Italia da quell’anno in poi, fu designato come giorno feriale. Il padre putativo di Gesù, considerato come papà e marito devoto per eccellenza, secondo la tradizione popolare protegge gli orfani, le giovani nubili e i poveri. Per questo in Sicilia si usa invitare a pranzo i mendicanti e i bisognosi allestendo grandi tavole dove persone di diversa estrazione sociale mangiano gomito a gomito. Questa nobile usanza è conosciuta come 'Tavola di San Giuseppe', che nella sua forma e nella sua sostanza si configura come un ex voto. Ex voto significa ‘a seguito di un voto’ ed è una locuzione che viene usata per indicare un oggetto dato in dono a una divinità. L’espressione completa è Ex voto suscepto ‘per un voto manifestato ed ascoltato’ e richiama all’impegno che il credente assume nei confronti della divinità purché la stessa ne esaudisca le richieste, oppure un ringraziamento per una grazia ricevuta. La parola votum, deriva a sua volta dal verbo vovere ‘promettere, formulare’ una preghiera a un Dio. I Tavulati i san Giuseppi ‘le Tavole di san Giuseppe’ sono banchetti devozionali in adempimento di una grazia ricevuta la cui tradizione ancora vive nella tradizione popolare siciliana in onore al Santo. Il 19 marzo di ogni anno l’antico rito delle “tavole di S. Giuseppe” rivive e le tavole vengono preparate con devozione nei minimi particolari e imbandite con piatti tipici della tradizione contadina da persone che hanno ricevuto una grazia dal Santo. Rispetto a un tempo le circostanze sono oggi cambiate, in seguito alle mutate condizioni del tessuto sociale, ma la tradizione si mantiene molto sentita a Santa Caterina Villarmosa dove sono ancora numerose le famiglie che partecipano alla preparazione di un sostanzioso banchetto ricco di piatti tipici appartenenti ad una cucina povera per seguire la tradizione che voleva che tali cibi venissero preparati per sfamare i poveri. A Santa Caterina Villarmosa è in uso fare la Tavola anche in altri periodi dell’anno, a seconda del voto che la famiglia ha fatto al santo. Le tavole venivano preparate con devozione e quello che si offriva doveva essere frutto di questua, elemosina di solito operata da mendicanti per bisogno o da religiosi a scopo di beneficenza o di culto. La famiglia che faceva il voto doveva metterci l’impegno non solo a preparare la tavola ma a procurarsi il cibo. La questua non era solo riferita al fatto che la famiglia che organizzava fosse povera, benché un tempo essere famiglia povera fosse la condizione più diffusa, l’importante era essere famiglia che cercava. Pertanto questa pratica doveva essere fatta anche da una famiglia benestante. Nel tempo la questua si è persa perché le condizioni delle famiglie è migliorata ma si è mantenuta la tradizione di mettere del proprio e di chiedere quello che manca. Nelle Tavole si cucinavano le verdure del periodo e se la famiglia che la organizza non le disponeva poteva chiederle a chi le aveva, ad esempio, e ottenerle facilmente, donate volentieri perché da necessarie per l’allestimento della tavola. Ancora oggi si comunica per le vie l’intenzione di organizzare la tavola ed è facile trovare l’aiuto di altre persone del paese, che non è detto che si conoscano fra di loro. La tavola ha due tempi. Il primo strettamente religioso, legato al fare un voto. Alla tavola si siedono tre persone che dovranno interpretare la Sacra Famiglia, un uomo anziano sposato, una donna ed un bambino, e i virgini, i commensali, i poveri invitati alla tavola, in numero di dodici a rappresentare gli apostoli. L’elemento che accomuna tutte le tavolate è la costruzione di un altare devozionale a gradoni, tutti ricoperti di candidi lini ricamati, ornato di pane modellato, con la presenza di un quadro raffigurante la Sacra Famiglia attorno al quale si costruisce, simmetricamente, la scenografia del luogo che accoglie la tavola. Nelle Tavole la fede popolare mette in scena la tradizione, facendo rivivere simboli della religiosità attraverso il cibo, elemento principe nelle Tavole votive al santo, ed il pane è quello che occupa particolare rilevanza. A Santa Caterina il pane di San Giuseppe è pane scanatu un tipo di pane lavorato a mano e decorato con un utensile che un tempo si chiamava scanaturi e dal quale il prodotto ha preso il nome. E' realizzato soprattutto in provincia di Caltanissetta ed è famoso perchè si mantiene morbido per diversi giorni prima di poterne fare mollica. Di impasto più duro del pane comune, il pane scanatu è un pane votivo che è lavorato molto per far sì che si presti meglio ad essere lavorato e a prendere forme diverse. Oggi spesso lo prepara il panettiere, un tempo era rigorosamente fatto in casa con farina di grano duro, lucido dell’uovo, giurgiulena ‘semi di sesamo’. La preparazione dei pani ha inizio alcuni giorni prima e vengono plasmati a formare oggetti simbolici di significato costante e di facile lettura. I pani votivi sono plasmati secondo precise forme simboliche; vengono collocati nell'altare allestito e sulla tavola per chiedere una speciale protezione del focolare domestico e della famiglia dalle avversità; una volta benedetti vengono donati – come anche il resto del cibo - a tutti coloro che si fermano a pregare. Il giorno convenuto i commensali si siedono alla Tavola. I personaggi san Giuseppe e la Madonna recitano le litanie di S. Giuseppe, una preghiera litanica cantata. S. Giuseppe e la Madonna (lettori o cantori della litanie) cantano la strofa, tutti i presenti recitano il ritornello. I commensali sono gli invitati alla tavola (i virgini); intorno alla tavola ci sono i padroni di casa, chi ha aiutato a preparare, chi vuole vedere Nella preghiera litanica tutti stanno in piedi, poi i commensali si siedono e quelli in piedi iniziano a servire. La tavola è stata benedetta all’inizio della giornata dal prete e i commensali lo sanno. Il rito si compie con impegno, sacrificio e servizio: io servo te che sei il povero invitato alla mia tavola. La tavola è memoria emotiva di una comunità, è mappa emotiva. Chi la organizza ha dentro di sé il desiderio di volerlo fare perché il farlo lo rende felice e sereno perché assolve un voto che lui stesso ha voluto fare. La tavola è testimonianza e implica la memoria emotiva di un popolo che ha fede. Aver speso tempo, forze, energia – oltre a soldi - significa che la tradizione viene sentita in maniera forte e radicata. A una Tavola di san Giuseppe passano centinaia di persone perché quello che si è preparato è benedetto. Non si prepara quindi soltanto per i commensali, ma anche per chi passa in visita alla mensa e se il cibo avanza viene confezionato e fatto recapitare alla persona bisognosa o malata o che non può essere presente (“questo è della tavola di san Giuseppe”). Nelle tavole di San Giuseppe ci si mette trasporto, non solo scenografia, la gente ci mette il cuore. La tavola di S. Giuseppe è una sorta di collante della comunità perché la comunità sa che ha in comune questa tradizione. Questa storia mi è stata raccontata da Graziella Carvotta di Santa Caterina Villarmosa che ha voluto ricordare la terra dove è nata testimoniando questa antica tradizione che ogni anno si rinnova. La madre stessa, sebbene ora molto anziana, ha voluto negli ultimi anni allestirne assolvere il debito che aveva nei confronti di un voto che aveva fatto.
Giulia Caminada